“White Noise”: Venezia apre con la satira filosofica sulla paura della morte

Al Lido la prima opera in concorso è godibile e qualitativamente degna di nota, ma ha nell’autocompiacimento per la propria estrosità il limite che ne smorza l’efficacia.

“White Noise”: Venezia apre con la satira filosofica sulla paura della morte

White Noise di Noah Baumbach inaugura la 79° Mostra del cinema di Venezia.

Il regista torna a dirigere la compagna, Greta Gerwin, e Adam Driver, già protagonista del suo “Storia di un matrimonio”, film nominato agli Oscar e presentato al Lido nel 2019.

Prima di varie opere sbarcate in laguna a firma Netflix (che ha in concorso anche “Blonde” di Andrew Dominik e “Bardo, False Chronicle of A Handful of Truths” di Alejandro G. Inarritu), “White Noise” è basato sul romanzo cult edito nel lontano 1985 ma assolutamente attuale di Don DeLillo, maestro della narrativa postmoderna americana.

Imperniato sulla visione satirica della vita familiare e del mondo accademico, il film ha un modo candido eppure frizzante di sottoporre alla lente di ingrandimento un fenomeno caratteristico della nostra epoca e che potremmo definire ottimismo paradossale, quello in cui si falsa l'autopercezione della realtà per non guardarne in faccia l’essenza oscura.

Ambientato in una cittadina del Nord America, “White Noise” ha al centro una famiglia allargata composta dal professor Jack Gladney (Adam Driver), direttore del Dipartimento di Studi hitleriani presso la locale università, sua moglie Babette (Greta Gerwin), istruttrice di ginnastica posturale, e i vari figli che i due hanno avuto assieme o da precedenti matrimoni. Tra le mura domestiche, a farla da padrone è un caotico assemblaggio sonoro tra TV accesa, elettrodomestici in funzione e discorsi logorroici di adolescenti che interagiscono a colpi di affermazioni ora saccenti, ora curiose, ora senza senso alcuno. Di snervante ma al contempo comica vacuità anche i dialoghi tra adulti. Il regista passa in rassegna tic, manie e vezzi di individui assorbiti dal proprio punto di vista, che parlano per il gusto di sentirsi parlare e non comunicano mai davvero con chi hanno di fronte. I personaggi sono tutti in qualche modo teatrali, divertenti nel loro essere sia riflessivi che ridicoli.

Nella seconda parte assistiamo a una catastrofe ambientale che costringe la famiglia protagonista a un precipitoso abbandono della propria casa. Qui la paura della morte, già presente nella prima sezione in forma discorsiva, diventa conseguenza di una minaccia reale, ma siamo ancora lontani dall’irruenza con cui si impadronirà della parte finale del film.

In sostanza in questa cornice vintage che gronda cultura americana degli anni 80, tra esilaranti botta e risposta e situazioni ai limiti dell’assurdo, si fa a poco a poco spazio quella che è un’evidenza lapalissiana universalmente rimossa: ci definiamo esseri viventi ma è innegabile che siamo anche esseri morenti. Proprio come la nube tossica del film, la morte incombe sinistra e in “White Noise” si passano in rassegna le varie e collaudate vie di fuga atte proprio ad esorcizzare, nascondere o rimuovere la paura più connaturata all’uomo. Si può ricorrere ai cosiddetti falsi profeti, ovvero figure verso cui provare eccitazione e da cui bramiamo di venire in qualche modo ipnotizzati (spassoso e illuminante in questo senso il continuo parallelismo e gemellaggio tra Elvis e Hitler). C’è l’idea che i riti di massa siano tributi mascherati ai futuri morti. C’è la ricerca di un’autosuggestione in positivo come antidoto alla tendenza a drammatizzare tutto, ci sono meccanismi di difesa come la negazione di accadimenti spiacevoli o come, all’opposto, la deliberata resa al fascino della catastrofe. Ci si può drogare di miti, consumismo, informazione, tutto pur di ingolfare la mente e consacrarla alla finta leggerezza.

La fede, poi, in “White Noise” è mera soluzione a uso e consumo di “creature fragili circondate da fatti ostili”, non molto dissimile nell’uso e nell’efficacia dalla preghiera pagana sottintesa del “dacci oggi il nostro consumismo quotidiano”.

Malgrado la parte centrale abbia i presupposti per divenire coinvolgente, viste le assonanze con la recente esperienza pandemica, l’empatia non è poi così tangibile. Sarà che il film si parla molto addosso, celebrativo di un tipo di cinema intellettuale e sofisticato, col vezzo dell’estrosità colta e divertita. Sarà che gli attori per primi sembrano un po’ trattenuti a causa del fatto che il tono delle interpretazioni si gioca in un artificioso equilibrio tra dramma e commedia (anzi, più spesso sit-com). Sarà che le incidentali ed evanescenti considerazioni filosofiche vanno a braccetto con una spicciolata di interrogativi curiosi relativi al mondo animale. Il risultato è che il gusto per la stranezza ad un certo punto satura. Non aiuta poi che metafore esistenziali riuscite (come quella del supermercato o della speranza cercata nella spazzatura) siano servite in maniera tanto didascalica.

“White Noise” ha il suo limite nel tenere

fede al rumore del titolo, imbastendo una stridente sinfonia di eccessi di varia natura che compromette la percezione della traccia contenutistica principale.

Un’esperienza comunque piacevolmente delirante.

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