Wilson, chi pensa "fuori" non è un fuori di testa

Nel seguito di "L'Outsider" lo scrittore inglese traccia un percorso fra intellettuali disorganici

Wilson, chi pensa "fuori" non è un fuori di testa

«A me, m'ha rovinato la guerra», diceva il Gastone di Petrolini. «A me, m'ha rovinato lo sport», potrebbe dire L'Outsider di Colin Wilson. Perché nello sport l'outsider non è un vero outsider, è semplicemente un insider di terza, quarta o quinta fila: nonostante quasi nessuno lo prenda in considerazione, partecipa alla gara. E, ovviamente, le poche volte in cui è proprio lui a vincere sono tutti lì a incensarlo e a esaltarlo, alcuni addirittura (i più adulatori, i più ipocriti) fingendo l'atto di contrizione, dicendosi pentiti per non aver capito, per non aver previsto... Intendiamoci, L'Outsider che segnò l'esordio letterario di Colin Wilson, nel 1956, fu un grande successo editoriale, ma poi quella parolina magica che indicava chi sta, per indole o per scelta, fuori dal sistema (in questo caso, fuori dal sistema culturale), in ambito sportivo subì una mutazione di senso che rapidamente colonizzò altri ambiti, incluso quello della cultura.

Comunque nel '57, quando scrisse a tambur battente il seguito de L'Outsider, ovvero Religion and the Rebel, che Carbonio Editore propone per la prima volta in italiano (Religione e ribellione, pagg. 365, euro 18, traduzione di Nicola Manuppelli), Wilson non poteva prevederlo. Ed è un bene, poiché qui l'autore non soltanto infoltisce la propria squadra di outsider, ma anche, e soprattutto, disegna l'intera traiettoria (nell'Outsider soltanto abbozzata) del suo concetto spesso male inteso, oltre che per colpa della vulgata sportiva, anche a causa di un certo conformismo dell'anticonformismo tanto caro, dagli anni Sessanta in poi, a larghi settori della cosiddetta cultura alternativa.

Eppure già il titolo avrebbe dovuto mettere tutti sulla strada giusta: non Religione contro ribellione, bensì Religione e ribellione. La ribellione dell'outsider come lo intende Wilson è infatti, in ultima analisi, un atto religioso. Parlando di Arnold J. Toynbee e della sua monumentale opera A Study of History, elogiata per l'antimaterialismo che la permea, Wilson butta lì una frase che potrebbe valere come motto araldico dell'outsider: «L'uomo è una linea telefonica tra Dio e il mondo e il suo compito è essere il più ricettivo possibile». E, a proposito della conversione al cattolicesimo di John Henry Newman, commenta: «Tutta la storia dell'outsider può essere ridotta ad alcuni semplici fatti religiosi: il peccato originale, la fuga dalla propria personalità, la realtà della volontà, le affermazioni esistenzialiste che la verità è soggettività, che non esiste una realtà che possiamo chiamare Uomo, che l'esistenza precede l'essenza». Stiamo parlando di un austero professore che aveva collaborato con il Foreign Office e di un cardinale-teologo: altro che lupi solitari e reietti della società...

Nel capitolo dedicato a Kierkegaard, il filosofo più religiosamente ribelle che sia dato conoscere, leggiamo: «In La malattia mortale, Kierkegaard giunge alla conclusione che ho enunciato nel primo capitolo dell'Outsider: l'outsider è l'uomo che ha affrontato il caos. L'insider è colui che si rende cieco per non vederlo». E ancora, perentoriamente: «con outsider, io intendo esattamente ciò che Kierkegaard intendeva per uomo religioso». E se Bernard Shaw viene presentato come una sorta di Omero che narra l'epica dell'outsider-Odisseo chiamato a schivare gli incantamenti e le imboscate del mondo moderno («la sua posizione rispetto al pensiero occidentale è importante quanto quella di Agostino o Tommaso d'Aquino per quello medievale» - ecco un esempio di entusiasmo giovanile), è il metafisico silenzio cui perviene Wittgenstein alla fine del suo Tractatus che offre a Wilson la possibilità di ritrarre così l'oggetto della sua ricerca: «L'outsider è l'uomo che si ribella istintivamente contro l'astrazione, contro la nostra civiltà del bambino-prodigio. L'outsider è l'uomo che desidera ardentemente un ritorno agli standard antichi, gli standard che riconoscono che l'intelligenza è solo a uso dell'intelletto, che la saggezza invece è un insieme che comprende intelligenza, emozioni e corpo».

Per Yeats la vita è «una lunga preparazione per qualcosa che non succede mai». Chi ne è consapevole, come l'outsider di Wilson che è «sintomo di una cultura morente» e «chiave del declino dell'Occidente», ha già fatto molto. Che si chiami T.S.

Eliot od Oswald Spengler, Blaise Pascal o William Law, Jacob Böhme o Alfred North Whitehead, ha compiuto una traversata in solitaria nell'oceano del superfluo, pescandone soltanto l'essenziale. Ecco che cosa significa, secondo Wilson, essere outsider. Cioè fuori, sì, ma di testa. Nel senso buono.

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