RomaA spasso per Roma, con i più anziani che a piccoli gruppi hanno portato in giro gli esordienti. Dal Colosseo a Fontana di Trevi, tra le vetrine dello shopping prenatalizio e l'immancabile birra. E' passata così la giornata libera degli All Blacks nella Capitale, prima di riprendere gli allenamenti a porte chiuse con la security che non fa avvicinare nessuno ai campioni del mondo. L'unico contatto con i tifosi a inizio settimana, al termine della sgambata dopo la vittoria ottenuta a Edimburgo contro la Scozia. Qualche sorriso e qualche autografo con i fans armati di palloni e magliette nere per portarsi a casa le firme di Tony Woodcock, l'uomo della meta mondiale contro la Francia, e Owen Franks. Per loro, i guerrieri dell'emisfero sud, Roma e l'Europa è una sorta di Eden. Sentono il fascino della storia. E del clima. A Victor Vito, il numero otto chiamato da Hansen per farci dannare con le sue ripartenze dal pacchetto, si illuminano gli occhi quando gli parli dei gladiatori, della storia della città eterna. Ha studiato la storia il ragazzo, un po' come i suoi compagni di squadra hanno fatto con l'Italia. L'hanno vista la partita contro Tonga e l'impressione che hanno avuto è quella di una squadra appena abbozzata, con un pacchetto che merita rispetto e una rimessa laterale che può far qualche danno. Niente di più, ma questo non lo dicono.
Contro l'Italia terranno anche a riposo il loro capitano Richie McCaw, ma il galateo del prepartita impone rispetto per chiunque, anche da parte dei campioni del mondo. Il loro avvicinamento al match non è mai una routine. Tutti sanno cosa fare, sin nei minimi dettagli. I loro allenamenti sono monitorati con il GPS e ripresi dalle telecamere. Poi la verifica in albergo, con tablet, numeri e statistiche alla mano. Il gesto tecnico è scontato. Tecnologia che va in contraddizione con quello che Steve Hansen, il coach, va predicando parlando dell'essenza del gioco: «Il rugby alla fine è un gioco stupido, semplice. Se i fondamentali li fai bene, il resto viene da sé». Hansen è uno che la sa lunga. Dopo aver guidato il Galles fino al mondiale del 2003, è tornato nella terra dei kiwi per assistere Graham Henry nel lungo viaggio che l'anno scorso li ha portati a conquistare il secondo mondiale dopo 24 anni.
Oggi con lui sulla panchina c'è Ian Foster, fino all'anno scorso alla guida di Waikato, con un passato anche in Italia. E' lui che ha studiato il file italiano, prima e dopo Tonga. Non si scompone più di tanto. La partita contro la Scozia ha regalato più certezze che dubbi. «Siamo tornati in carreggiata, dopo il pareggio nell'ultimo match del Rugby Champioship contro l'Australia, da Edimburgo arriviamo all'Olimpico con più fiducia. E' una partita importante perché fa da ponte alle sfide contro Galles e Inghilterra che chiuderanno il tour».
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