Arrivano i prof «tutti neri» Abbiamo solo da imparare

Sono i campioni del mondo e non a caso. Sono il vanto e la bandiera di un Paese che in vetrina mette quindici uomini vestiti di nero per il lutto degli avversari. Gli All Blacks e l'Italia, Davide contro Golia (oggi allo Stadio Olimpico di Roma, ore 15, diretta tv dalle 14 su La7 e SkySport1) . Da una parte c'è chi tra mille alti e bassi cerca di onorare la sua presenza tra le grandi della Vecchia Europa, dall'altra c'è l'Università della palla ovale, la squadra che solo a guardare gli scontri diretti con tutte le altre nazionali del pianeta è in vantaggio su tutta la linea. Noi, sessanta milioni e uno sport amato da molti ma che in pochi capiscono fino in fondo.
Loro, quattro milioni in tutto, due mondiali e una Nazione che, vela a parte, spinge soprattutto in mischia. La contraddizione è tutta lì. C'è tutta una letteratura dietro la Nuova Zelanda: il popolo guerriero, i maori, l'Haka che Wayne Shelford ha rispolverato dalle incrostazioni dei bianchi, i Pakeha. E poi c'è il rugby qualcosa di più di uno sport nazionale. Cade il governo se si perde un mondiale e la Nazione è capace di impazzire quando Richie McCaw, il capitano, ha alzato la coppa 24 anni dopo l'ultima vittoria. In Italia quella coppa intitolata a William Webb Ellis viene solo come pezzo di una scenografia che non ci appartiene. I nostri trofei sono le vittorie con Galles, Irlanda, Francia e Scozia che per carità fanno bella mostra nel palmarès azzurro. Poi ci sono le sconfitte, ancora più pesanti quando si parla di rugby giovanile. L'Italia, tecnicamente parlando, resta una provincia dell'impero francese. E la madre patria tratta le nostre espressioni rugbystiche come qualcosa da tenere d'occhio ma senza farle avvicinare troppo all'aria rarefatta dell'alto livello. Così capita di giocare anche 5 partite di seguito con selezioni transalpine ma di prendere sempre 40 punti quando si fa sul serio.
Abbiamo sperato nelle Accademie per alzare i nostri standard, buttiamo Zebre e Benetton nella mischia della Celtic League con la speranza di arrivare a mandare in campo una Nazionale più competitiva. Eppure non riusciamo a regalarci quello scatto di reni che ci permetterebbe di crescere un po' come ha fatto l'Argentina. L'impressione è che si guardi poco al territorio. Lo fanno i Pumas, gli argentini che hanno smesso di reclutare nei dintorni di Buenos Aires e sono andati in giro spingendosi fino alla Patagonia e a San Juan. L'Italia invece il futuro lo ha coltivato fino ad ora nel recinto di Tirrenia. Da lì è uscito qualche giocatore, il cui talento era noto in partenza e ci si è accontentati.
Ora è il momento di cambiar marcia. Il tentativo ambizioso dei 24 centri di formazione è un buon inizio. Ma è necessario guardare altrove. La Nuova Zelanda è un modello, costruito su una struttura provinciale, ma finalizzata alla Nazionale.

Hosea Gear, Dan Carter, Tony Woodcock e Conrad Smith hanno già i loro cloni in qualche provincia che li manda in campo a dispetto dell'anagrafe. L'Italia no. Cerca ancora il suo Dominguez, il numero 10, l'uomo che potrebbe far cambiare rotta ad un movimento ancora alla ricerca di una sua dimensione. Ed è tutto dire.

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