Auguri a Thierry Henry, leggenda dell’Arsenal e del calcio francese, l’uomo che si stava giocando la carriera per “colpa” di Carlo Ancelotti che proprio non riusciva a vederlo.
Sembra stranissimo, oggi che la Juve ha appena concluso l’affarissimo Pogba (quello delle risatine malefiche di Pirlo e Buffon alle spalle di un troppo sbrigativo sir Alex Ferguson), ricordare che i bianconeri si siano lasciati sfuggire un campione così. Eppure è successo. Tanto che lo stesso Titì ha più volte ribadito – l’ultima nemmeno un anno fa – che da Torino dovette andar via perché gli erano stati fatti degli sgarbi inaccettabili, che qualcuno avrebbe voluto utilizzarlo come un ricco assegno da incassare al più presto. Se l’è sempre presa con Moggi, insomma.
Che però, la sua versione dei fatti l’ha pur data. Diversa da quella del campione transalpino. Il retroscena del caso Henry lo ha raccontato l’ex diggì juventino, nel libro "Il Pallone lo porto io" scritto a quattro mani con il giornalista Andrea Ligabue. “Gli dissi che lo avremmo dato in prestito all’Udinese, perché Ancellotti non lo vedeva molto. Henry, che arrivava dalla vittoria del Campionato del Mondo con la Francia nel 1998, si sentì umiliato. Ricordo che in sede si mise addirittura a piangere”.
Il francese, che arrivò a gennaio ’99 in cambio di 24 miliardi al Monaco, secondo la versione di Moggi non accettò la nuova destinazione: restò fino alla fine del campionato e poi se ne andò all’Arsenal seguendo lo stesso identico percorso già fatto da un altro grandissimo bistrattato del football italico, l’ex interista Denis Bergkamp. A Torino non giocò nel suo ruolo naturale, quello in cui aveva incantato tutti. Ancellotti, che era ancora lontano dall’epifania pallonara passata alla storia come Albero di Natale, utilizzava il 3-5-2 e Titì faceva l’esterno sinistro di centrocampo, con la consegna di offendere e difendere, a tutto campo. Insomma, il suo era il ruolo che nei tempi ruggenti del calcio anni ’80 sarebbe stato definito del terzino fluidificante.
Era, però, altri tempi. Era la Serie A delle sette sorelle e – giusto per restare in tema – in quell’Udinese che secondo Moggi Henry avrebbe snobbato giocavano gente come Marcio Amoroso, Giuliano Giannichedda e Martin Jorgensen, cioè calciatori che oggi risolverebbero i problemi di moltissime big dell’attuale campionato. Tutto un altro livello e un anno di ambientamento, in fondo, poteva essergli concesso.
Henry però ha continuato per la sua strada e ha vinto tutto. Ritiratosi giusto un paio d’anni fa alla veneranda età di 37 anni e che oggi ne compie 39, ha lasciato i campi di gioco da Roi: è (ancora) il miglior marcatore di sempre della nazionale, che sacrificò la lealtà sportiva sull’altare della qualificazione transalpina ai mondiali di Sudafrica nel 2010 con il celeberrimo “colpo di mano” che negò all’Irlanda di Giovanni Trapattoni il pass per Città del Capo. Eppure, come disse il suo ex cittì Raymond Domenech, la Francia non lo ama.
Titì Henry, ritiratosi giusto un paio d’anni fa alla veneranda età di 37 anni, ha lasciato i campi di gioco da Roi: è (ancora) il miglior marcatore di sempre della nazionale, con 51 reti. É il secondo, in assoluto, in termini di presenze: con i Galletti è sceso in campo 123 volte, meglio di lui ha fatto solo un’altra vecchia conoscenza del calcio italiano, Lilian Thuram.
Eppure la sua parabola in nazionale è ricordata nell’episodio che sacrificò la lealtà sportiva sull’altare della qualificazione transalpina ai mondiali di Sudafrica nel 2010 con il celeberrimo “colpo di mano” che negò all’Irlanda di Giovanni Trapattoni il pass per Città del Capo.
Un palleggio che, adesso, divide - manco fosse una trincea sportiva - francesi e irlandesi anche oggi a distanza di quasi sette anni dalla furbata che consentì ai Blues di sfangarla.Forse è per questo cheil suo ex cittì Raymond Domenech disse che la Francia non lo ha mai amato, a differenza dell’Inghilterra dove invece fu un idolo assoluto per i Gunners.
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