E va bene, il Giro è suo. Di Nairo Quintana, dell'imperturbabile colombiano che a matrimoni e funerali arriva sempre con la stessa faccia. Noi però ci teniamo Aru. A ciascuno il suo. E mettiamoci il cuore in pace. La maglia rosa festeggia con la sua mogliettina di 17 anni la più bella vittoria del Giro, questa cronometro del Grappa per scalatori di razza. Bravo lui e tanti complimenti. Ma non si scopre qui che è un grande scalatore, non è certo una rivelazione. La rivelazione è tutta nostra, di questa Italia arrivata al Giro sulle ginocchia e con la lingua di fuori, con l'umore depresso e pochissime speranze. Ajò, ormai è una certezza: abbiamo il futuro, Fffabbbio Arrru, dalla Sardegna con furore. Grande la sua prova: solo 17'' pagati a Quintana, ma sberle sonore al resto della concorrenza. Il bilancio finale è entusiasmante: posizione da podio e concrete possibilità di andare oggi sul mitico Zoncolan a prendersi addirittura il secondo posto, con l'ultima spallata a Ciccio Uran.
«Tutti mi chiedevano una vittoria per onorare la maglia rosa, questa tappa era la mia, avevo il dovere di vincere»: così Quintana, che certo non nasconde il codone di paglia per quella maglia presa con la furbata dello Stelvio. A spingerlo il dovere di nobilitarla, di legittimarla, in un certo modo di ripulirla. Con molta lealtà, gli va riconosciuto d'essere un campione della montagna. Magari lo dovrà dimostrare anche sullo Zoncolan, per chiudere il cerchio definitivamente. Però, però, però. Però nessuna tappa, nessuna vittoria, nessuna impresa può spostare di una virgola il corso oggettivo della storia. Doverosamente riporto le parole di Beppe Martinelli, il diesse di Aru: «Quello che è successo sullo Stelvio non si cancella. Quintana probabilmente avrebbe vinto lo stesso, ma la gara ne è uscita falsata. Quel giorno, se non avesse approfittato in quel modo, non sarebbe arrivato con quasi quattro minuti. E oggi avremmo tutta un'altra corsa...». Parole perfette. È questo il senso vero del Giro di Quintana, il Giro falsato, il Giro viziato, il Giro sfregiato. È questo il significato di quell'asterisco, di quei ma e di quei se che l'accompagneranno sempre. Una squadra può vincere per due a zero la finale del Mondiale, ma se l'uno a zero è segnato con la mano, o con una madornale simulazione premiata dall'arbitro con un rigore fasullo, quel trionfo resta segnato. Minorato. Dimezzato.
Non è per stupido sciovinismo, per tifo patriottardo o perché non sappiamo perdere, che noi italiani fatichiamo a ingoiare il rospo. Per inciso, sono carichi di rabbia e di rimpianti anche gli stranieri, persino l'altro colombiano Ciccio Uran, forse il più imbestialito di tutti. E comunque, guardando nel nostro piatto, non c'è piccineria: l'Italia del ciclismo è abituatissima a perdere, e lo fa sempre molto bene. Ma stavolta no, stavolta è tutto diverso: permane stabilmente sul Giro una nube scura di rancori e di risentimenti. In ogni caso: a Quintana il Giro, a noi Ajò Fffabbbio Arrru. A ciascuno il suo. Il mondo intero invece accoglie dal Giro la novità travolgente di questa generazione ruggente. Classe '90, classe di platino. Persino la sfinge Quintana si lascia sfuggire il battutone: «Io, Aru, Kwiatkowski, Sagan: fate largo, stiamo arrivando». Nel 1990, l'Italia sognava notti magiche con il suo Mondiale del calcio e Gianni Bugno dominava dalla prima all'ultima tappa il Giro d'Italia. Il 3 luglio, in un villaggio sardo, nasceva Fabio Aru.
Allora nasceva un bambino qualunque, più tardi avviato al liceo classico dalla mamma insegnante e dal papà ingegnere, per formare un singolare ragazzo umanista con la passione della bicicletta. Tempo dopo, sulle montagne del Giro, sta nascendo in un altro modo. Questa volta da campione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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