C'è una profonda differenza nel modo repentino in cui John Elkann, dopo aver meditato mesi, nello spazio di nemmeno ventiquattro ore ha messo mano ai vertici dei due gioielli sportivi di famiglia. Al netto di un evidente processo di Elkannizzazione di entrambe, è sembrato che una contasse di più e l'altra di meno. Come se la Juventus dei bilanci devastati e delle inchieste e delle plusvalenze e degli accordi spericolati sugli stipendi meritasse una carezza che riordina subito il caos dopo lo schiaffo, e la Ferrari no. Certo, emergenze diverse; certo, Agnelli, Nedved e Arrivabene che lasciano riassumono una gravità di eventi e comportamenti maggiore rispetto al mancato soddisfacimento delle aspettative sportive che paga il team principal Mattia Binotto. Di là ci sono un bilancio in dissesto, una procura che indaga e un club da salvare, di qua un poker di vittorie e un titolo di vice campioni del mondo; anche se chiunque conosca la F1 sa quanto sia complicato e delicato il ruolo di raccordo del team principal. Allora passi, dopo lo schiaffo alla Juve, la carezza di farsi trovare pronti con i nomi del nuovo vertice per mettere in sicurezza la società. Ma perché il doppio schiaffo di lasciare la Ferrari senza team principal fino a nuovo anno in un periodo da sempre delicato per i team? Tanto più che il nome del sostituto sarebbe dovuto essere pronto da un pezzo visto che, a inizio stagione, il presidente Elkann aveva evitato di complimentarsi con la squadra «spiazzato» da vittorie inattese che complicavano la decisione già presa di rimpiazzare Binotto.
La profonda differenza tra le due rivoluzioni nello spazio di poche ore sta in questo. A meno che, e purtroppo potrebbe essere, la Ferrari F1 di Elkann faccia ora meno gola e che il piano del presidente sia stato scombinato in questi mesi dai troppi no dei pochi sostituti all'altezza di Binotto.
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