Sinner, il triplete del re

Il terzo Slam, secondo di fila a Melbourne, trionfo di perfezione e semplicità: nel '24 Jannik onorò padre e madre, ora il fratello

Sinner, il triplete del re
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Ci ha sorpresi ancora una volta, e ha sorpreso anche se stesso. Il terzo Slam di Jannik Sinner è forse ancora più incredibile e meraviglioso dei primi due, perché una cosa è essere predestinato, un'altra vincere ancora quando tutti pensano tu sia in difficoltà. Quando il fisico e la mente si rifiutano di seguire il tuo corpo, ma tu riesci a trovare la via d'uscita. Ed essere, alla fine, perfetto.

Braccia alzate, mani sul cappellino per coprire l'incredulità, il solito sorriso felice ma appena accennato per rispetto di chi sta soffrendo dall'altra parte della rete. Questo è Jannik al finire di queste due settimane australiane in cui è successo di tutto, ma non è stato abbastanza, per gli altri. La parola definitiva l'ha messa Alexander Zverev, incolpevole sconfitto di una finale mai in discussione: «Ringrazio il mio team, abbiamo fatto tanto per essere qui. Ma forse sono io che non sono bravo abbastanza». Il rivale cannibale lo ha curato con un abbraccio, ed è questo il senso del tennis che Sinner porta avanti con orgoglio, la favola di un mondo fatto di compagni di avventura, nel quale la differenza tra una vittoria e una sconfitta non deve cambiare quello che sei. «Che tu possa incontrare il trionfo e il disastro e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo»: è frase di Kipling che campeggia all'ingresso del campo centrale di Wimbledon e che risuonava ieri migliaia di chilometri più in giù.

La verità, attuale, l'aveva raccontata Alex de Minaur, dopo essere uscito disarmato, anche nell'animo, dalla sfida con il Numero Uno: «In questo momento contro Jannik non ce n'è per nessuno». Come Schumacher sulla Ferrari, come Tomba tra i paletti. Eppure lui, alla premiazione, aveva gli occhi lucidi, perché il sentimento estatico della grandezza di una vittoria si mischiava con quel pudore che gli permette di non esagerare mai: «Ogni torneo è diverso - racconterà poi in sala stampa -, il tennis è imprevedibile e basta una sconfitta per far girare la stagione. Non so come mi riposerò ora, ma so che quando tornerò ad allenarmi non ci saranno mezze misure. Non ci sono mai certezze per un tennista, se non quella di aggrapparsi all'allenamento per migliorare».

Sembra così semplice, così come la partita di ieri. Che è inutile ormai raccontare, se non fosse per quella palla nel tie-break del secondo set che Sinner ha scagliato sul nastro, e che è ricaduta giusto di là spingendo Zverev alla disperazione. Il tennis è così: fortuna anche, può cambiare tutto in un attimo, e allora l'amore sublime per questo sport passa proprio per l'estrema semplicità. Impegno, dedizione, sofferenza, amore. Quello per il proprio team («questo è per te Darren, è il tuo ultimo Australian Open ma spero ancora di farti cambiare idea»), e quello per la propria famiglia: «Questa volta avevo qui con me mio fratello Mark: è il mio migliore amico, quello con cui parlo sempre dei miei problemi e che mi dà le soluzioni.

Sa da dove arriviamo, sa dei miei sacrifici: è la persona più importante della mia vita. È stata la parte più bella di queste due settimane». Forse qualcuno si sorprende che sentimenti così esistano ancora: Jannik è qui per ricordarcelo ogni volta che vince.

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