14 Giugno 1941. Una data che i lituani non potranno mai dimenticare. Alle prime ore dell’alba in tutto il Paese, le milizie dei reparti della sicurezza sovietica, la Nkvd erede della Ceka, furono sguinzagliati con un preciso ordine: arrestare e prelevare intere famiglie: uomini, donne, bambini, neonati. L’accusa: essere controrivoluzionari, cioè professionisti, piccoli proprietari, insegnanti. In altre parole: la classe dirigente del Paese, caduto in mano sovietica dopo il patto Molotov-Ribbentrop. Il destino: gulag e campi di lavoro in Siberia.
Jonas Puodžius, matematico in pensione, quel 14 giugno era un bambino di sei anni. Insegnante, la professione del padre. L’abbiamo incontrato a Vilnius, dove vive con la moglie Marija. Abita nell’immediata periferia della città, in uno di quei grigi casermoni in stile sovietico che ancora si trovano nella Lituania dei giorni nostri. È un appartamento piccolo, ben arredato e accogliente. Librerie in vari punti della casa e tanti quadri alle pareti, perlopiù di autori Lituani. Molti riproducono i luoghi delle deportazioni.
“Il giorno prima - ricorda - era una bella giornata di primavera. Io e mio fratello eravamo felici di quel tepore dopo un duro inverno. I miei genitori cercavano di trasmetterci serenità e gioia. Ma c’era qualcosa che traspariva dai loro gesti, dal tono della voce. Erano preoccupati”.
Nell’anno precedente, 1940, erano già state operate deportazioni. Allora non furono di massa. Coinvolsero soprattutto ufficiali dell’esercito e personalità di spicco. Questa volta la situazione era diversa. Le liste in mano ai miliziani erano lunghe. Dovevano essere deportate intere famiglie. Oltre trentamila persone in meno di una settimana.
“Da qualche tempo circolava la voce - continua Jonas – che alla stazione di Kaunas (ndr la seconda città del Paese dove allora abitavano i Puodžius) erano giunte decine e decine di vagoni merci”. Con una frettolosa valigia di pochi vestiti ed effetti personali, la famiglia di Jonas fu caricata su uno di quei vagoni per una destinazione sconosciuta.
“Arrivarono quando era ancora buio - racconta Jonas Markauskas - Mia madre conosceva il russo, mio padre no. Le dissero di prendere il minimo indispensabile. Non sarebbero stati via molto. Le chiesero dove fossero gli altri due traditori della Patria. Mia madre indicò mio fratello e mia sorella, di 2 e 1 anno…”.
Lui non c’era quel giorno. È uno dei tanti Lituani nati in Siberia dalle famiglie dei deportati. Nacque nel 1946 a Trofimorsk, uno dei più terribili luoghi delle deportazioni sovietiche. Estremo Nord della Siberia. È una tante isole sparse nel delta del fiume Lena, là dove si getta nel Mar di Laptev. Circa 400Km oltre il Circolo Polare artico. Una terra alla fine del mondo, dove l’inverno dura 10 mesi all’anno e le temperature raggiungono meno 50, meno 40 gradi sotto lo zero.
Jonas è oggi presidente dell’associazione Lapteviečiai, che significa “Coloro che furono deportati nel Mar di Laptev”. Il suo compito è raccontare, trasmettere la memoria di quanto avvenne.
Jonas Markauskas tornò nella sua Lituania nel 1957. Il ritorno in una terra che non aveva mai conosciuto. Ma, seppure in Patria, le sofferenze degli ex deportati non erano finite. Per le autorità sovietiche, per il partito, avevano il marchio dell’inaffidabilità. Anche i bambini nati durante la deportazione. Né loro, né i genitori avevano documenti, perciò non avevano alcun diritto.
“Mia madre - racconta - riuscì a ottenere un piccolo monolocale, ma secondo le leggi sovietiche la nostra famiglia era troppo numerosa per una metratura così piccola, quindi non eravamo in regola… Senza documenti però non avremmo potuto trovare altro”.
Una via d’uscita c’era. Molti furono contattati dai servizi di sicurezza, dal KGB, erede del precedente NKVD. Mellifluamente proponevano privilegi, se avessero “tenuto gli occhi aperti” e riferito. Jonas, i suoi fratelli, la madre, continuarono a dividersi il minuscolo appartamento di pochi metri, il padre costretto a farsi ospitare da parenti in un piccolo villaggio al confine con la Polonia.
Assieme a Jonas Puodžius, sullo stesso convoglio, viaggiava Dalia Grinkevičiūtė con padre, madre, fratello. All’epoca Dalia era una ragazzina di 14 anni. Sopravvisse al terribile gulag del Mar di Laptev e in quelle disperate condizioni riuscì a tenere un diario segreto. Un diario tradotto in Italiano nel 2009, poco conosciuto nel nostro Paese. Ciò che riguarda i crimini dell’Unione Sovietica interessa poco l’Italia e in generale l’Europa occidentale, quella che ha avuto la fortuna di stare “dall’altra parte”.
Dalia era una combattente nata, di quelle che le avversità non piegano. Sopravvisse in Siberia, nel Mar di Laptev. Nel 1950 riuscì a tornare in Lituania, clandestinamente, con la madre oramai malata, assolvendo al suo desiderio di morire ed essere seppellita nella sua terra. Per una delazione Dalia fu scoperta, processata e rispedita nuovamente in Siberia. Per fortuna in campi di deportazione in cui le condizioni di vita erano meno dure. Si poteva anche studiare. Tornò in Patria con una laurea in Medicina.
Le sue sofferenze non erano finite. Fu perseguitata, perché non volle piegarsi alle logiche dell’onnipresente partito unico. Le fu in tutti i modi impedito di svolgere il suo lavoro di medico. Morì di cancro nel 1987, tre anni prima della conquista dell’indipendenza da parte della Lituania. Il destino a volte è crudele.
Oggi la Lituania è un Paese libero: Jonas, Irena, Rimantas, Arunas, Aušra, Julija, Rita… e tanti altri, sono testimoni
viventi di quella terribile stagione. Dopo il buio, terminato nel 1990, con la conquista della libertà non si devono più vergognare del passato innocente di deportati. E ci raccontano le loro storie di disperazione e felicità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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