Doveva essere per poco tempo, e invece fu per tutta la vita. Quando l'Università di Harvard chiese a Igor Stravinskij, il padre della musica del Novecento, di tenere un corso di poetica musicale, cattedra tenuta in precedenza da Eliot, il compositore, che all'epoca risiedeva a Parigi, snodo cruciale delle avanguardie, contava di rimanerci il tempo necessario per la sua docenza. Ma poi lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la successiva invasione della Francia lo costrinsero a rimanere negli States fino alla morte, avvenuta a New York nel 1971.
Dopo una tournée nel 1925, nel 1939 l'autore del Sacre du printemps non era sicuramente un Carneade, oltreoceano: pochi anni prima il sommo direttore d'orchestra Leopold Stokowski, all'epoca alla testa dell'orchestra di Philadelphia, propose a Walt Disney di inserire la Sagra stravinskijana nel film Fantasia. Che Stravinskij ne fosse entusiasta, almeno inizialmente, non si può certo dire: sia dal punto di vista economico, in quanto la Disney gli precisò subito che l'opera, essendo russa, non era soggetta a copyright negli Stati Uniti e quindi, al netto di un'offerta onnicomprensiva di 5mila dollari, sarebbe stata utilizzata in ogni caso; e sia dal punto di vista musicale, dopo che il compositore, sentendo i provini della colonna sonora, ne rimase sconvolto per i rimaneggiamenti poco graditi. Quella con la Disney non fu l'unica sua disavventura statunitense. Poco dopo il suo arrivo, infatti, Stravinskij riarmonizzò l'inno americano eseguendolo pubblicamente a Boston: le leggi locali, però, ne vietavano qualsiasi arrangiamento e la polizia procedette a farglielo cortesemente notare.
Nonostante tutto, nonostante non l'avesse previsto quando accettò di tenere il corso ad Harvard, l'autore del Sacre nel 1945 venne naturalizzato statunitense: Stravinskij divenne Stravinsky. Gli Stati Uniti furono il Paese in cui il compositore russo visse la sua fase compositiva più ardita come, ad esempio, lo studio di Webern e della dodecafonia. Ma la metà degli anni '40 segnò anche l'impegno di Stravinsky nel jazz, un genere già sperimentato, eccezion fatta per gli ammiccamenti dell'Histoire du soldat, sin dal 1918-1919 con Ragtime per 11 strumenti e Piano-Rag-Music: nella patria del jazz, però, Stravinsky condusse una seria e organizzata dedizione verso questa musica guardata con sospetto, ma anche utilizzata. Lo testimonia, un titolo su tutti, Ebony Concerto per clarinetto solista e jazz band (cinque sassofoni, clarinetto basso, corno, cinque trombe, tre tromboni, pianoforte, arpa, chitarra, contrabbasso, tam-tam, piatti, timpani) dedicato a Woody Herman, il celebre clarinettista che glielo commissionò e che ebbe l'onere di sottoporre alla sua band una partitura perfettamente stravinskijana, e quindi tutt'altro che approcciabile con scioltezza.
Sulla scena musicale americana dell'epoca, però, c'era un altro big dell'ebano, Benny Goodman, il «re dello swing», clarinettista di formazione classica che, quindi, amava i grandi autori, compresi i contemporanei. Un interesse peraltro ricambiato: per Goodman scrissero ad esempio Bela Bartok, Paul Hindemith e Leonard Bernstein. Stravinsky, però, si appoggiò a Herman e il debutto del suo concerto non ebbe il successo sperato. Poco dopo, nel 1947 - non si sa se in risposta a Ebony, ma è una congettura non troppo improbabile - Goodman commissionò ad Aaron Copland un concerto per clarinetto. Le strade di Stravinsky e Goodman si riunirono nel 1965 quando, forse memore della fredda accoglienza del debutto e quasi vent'anni dopo la prima non soddisfacente incisione, il compositore russo scelse proprio il «re dello swing» per registrare nuovamente il suo Ebony Concerto.
Dietro alle vicende che portarono Stravinsky e Goodman a incontrarsi c'è tutto un mondo - quello del jazz, dello swing, delle band, dell'America, della Russia, delle influenze tra generi, della contaminazione con la classica - che Biagio Bagini ha deciso di condensare in Swinging Stravinsky (Oligo, pagg. 210, euro 16,90) che, benché sotto forma di romanzo, è molto di più. Attraverso le storie semibiografiche di Igor (Stravinsky) e di Benny (Goodman), Bagini porta infatti alla luce l'America degli anni '40 e '50, l'America delle avanguardie classiche e l'America del jazz in uno spaccato che illumina specularmente la storia della musica.
Stravinsky non era del mondo del jazz, ma era nel mondo del jazz e le vicende che lo legarono ai maggiori clarinettisti swing dell'epoca non furono isolate: il compositore fu un idolo per tutto il gotha jazzistico americano e, per contro, visse guardando bulimicamente a ogni nuovo genere. Nel 1951, ad esempio, incuriosito da quel genio dell'improvvisazione che era Charlie Parker, Stravinsky decise di recarsi a Manhattan, al Birdland, per ascoltare dal vivo il grande sassofonista: «The Bird», quando vide quell'inconfondibile profilo seduto ai tavoli del locale, diede prova del motivo per cui Stravinsky era nel jazz-club inserendo, all'interno della sua Koko, una citazione de L'uccello di fuoco. Che colpo: Stravinsky ne restò talmente folgorato da rovesciare il whisky che aveva nel bicchiere.
Stravinsky fu letteralmente idolatrato anche da Miles Davis e Frank Zappa: il primo nella sua autobiografia raccontò che, quando era allievo alla Juilliard, si recava spesso in biblioteca per consultare quegli spartiti così rivoluzionari; il secondo omaggiò il Sacre du printemps utilizzandone il primo tema in Fountain of Love.
Rileggendo quelle lezioni di Stravinsky ad Harvard, laddove tutto ebbe inizio, quando ancora non poteva prevedere che la sua permanenza negli Stati Uniti sarebbe diventata perenne e che lo avrebbe proiettato al
centro della storia non solo della classica, ma anche del jazz, ne emerge tutto il valore profetico: «Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente».
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