SZABÓ Un segreto dietro la porta

La scrittrice ungherese premiata in Italia: «Ho scritto la storia di Emerenc per espiare una colpa»

da Palermo
Szabó Magda. Presente! È qui a Palermo la signora 88enne, la più grande e popolare scrittrice ungherese. Citata all’ungherese, prima il cognome poi il nome, non risponde a una convocazione giudiziaria o una chiamata militare. Accoglie invece l’invito del Premio Mondello, che quest’anno assegna il prestigioso riconoscimento per la letteratura straniera a lei, che già due anni fa, per il suo capolavoro La porta (Einaudi) ha ricevuto in Francia il «Femina Prix»: a oltre un quarto di secolo dall’incoronazione in madrepatria (avvenuta dopo un ventennio di silenzio e interdizione alla pubblicazione), nel 1978, con l’assegnazione del «Kossuth» (il più importante premio letterario d’Ungheria) di cui in La porta spietatamente si racconta. Se è vera la storia del romanzo, il voto dei giurati suona come il verdetto di una corte; il «Mondello» le cade addosso come una condanna, un castigo. E, poiché Emerenc - la protagonista della narrazione, abbandonata nel finale alla sua sorte dalla scrittrice troppo impegnata a raccogliere applausi e allori - «come Jahvè punisce fino alla settima generazione», l’acclamata romanziera non può sperare nella pace nemmeno per la sua discendenza.
L’opera La porta è autobiografica. Racconta i vent’anni trascorsi dalla Szabó – «Magda, Magduska», nella pagina più commovente del libro – con colei che è troppo poco definire la sua domestica, non abbastanza definire l’angelo custode della sua casa e della sua intimità, o il demone ispiratore della sua scrittura. È un personaggio epico: per la trasfigurata memoria della storia ungherese che conserva, stretta a sé col fazzoletto che le cinge la testa come un elmo da Valkiria. Fiabesco, per la malìa di strega che emana e la forza che irradia attraendo inesorabilmente a sé persone e animali. Biblico, per il culto religioso del lavoro che osserva e simboleggia. Empio, per lo sdegnato rifiuto che oppone alla chiesa. Tragico soprattutto, per il ruolo che gioca nell’esistenza e nella carriera della sua autrice: grande deuteragonista e antagonista al di là della «porta». Da una parte un’eroina di contemplazione, dall’altra la campionessa dell’azione. Colta, impegnata, beneducata l’una, intuitiva, impolitica, diffidente di mestieri che non comportino fatica l’altra. Devota alla religione familiare, tradizionale e liturgica la scrittrice, signora della misericordia, di magie e riti pagani – il calice della fratellanza, il piatto dell’amicizia – il suo alter ego... Specchiandosi in un personaggio tanto vicino e tanto diverso, però, molto – tutto – ha rivelato di se stessa Magda Szabó: della sua vita e di riflesso della sua arte e del suo Paese.
È vera allora, questa storia? Ed è esistita Emerenc?
«Certo, è tutto vero. Ho vissuto vent’anni con lei, Emerenc era il suo vero nome. Mi sono presa quache libertà d’invenzione, ma è andata davvero così. E lei era davvero così: una donna di grande forza e di fortissimi amori».
Il suo libro è una dichiarazione d’amore o l’espiazione di una colpa?
«È una confessione: d’amore e soprattutto di una colpa. Non avrei più potuto vivere, né scrivere se non avessi raccontato a tutti quanti – al mio Paese e a molti altri Paesi – come era andata. Tutti dovevano saperlo. Lei era completamente diversa da me e io dovevo espiare il mio tradimento, ma un profondo legame ci univa e la mia via è stata un po’ come la sua: lei visse come in una fiaba, con i suoi gatti e suoi segreti, io fui a lungo circondata da uno sgradevole silenzio in Ungheria».
Per un decennio, tra il 1948 e il 1959 non poté pubblicare. Ricominciava appunto a scrivere all’epoca del vostro incontro. Come visse il dopoguerra?
«Devo riconoscere di essere stata fortunata all’inizio, appena arrivata a Budapest. La vecchia generazione era scomparsa: molti erano prigionieri, o morti. La guerra era appena finita, ma non era finita affatto: si aspettavano padri e mariti che non tornavano. C’era un nuovo governo, la voglia di ricostruire il paese distrutto e edificare una nuova patria. Io fui impiegata al ministero della Cultura e dell’educazione. In quegli anni conobbi mio marito, anglista e scrittore, e furono anni di relativa libertà: pubblicavamo perfino una rivista. Poi, nel giro di quattro anni sparirono la rivista e la libertà».
E lei prese a tacere. Quale fu il suo rapporto con il comunismo?
«Potevo parlare, ma dovevo giustificare ogni mia parola. I comunisti avrebbero addirittura voluto fare di me, autrice, una loro rappresentante. Rifiutai, fu la mia resistenza privata. Continuai a scrivere, però, forte della mia fede: il credo protestante. Scrivevo in segreto, incontrando giovani autori cattolici ed ebrei. Le edizioni Corvina, che pubblicavano autori inglesi, francesi e russi vollero leggere un mio manoscritto: ne furono entusiasti, e mi misero in contatto con i tedeschi di Insel e, grazie all’aiuto di Herman Hesse, pubblicai prima in Germania che in Ungheria il primo titolo successivo alla rivoluzione del ’56, Fresko, cioè Affresco, uscito nel ’58».
Da allora, con l’assistenza di Emerenc, iniziò la sua ascesa.
«Sulle prime la vita rimase la stessa per me e mio marito: soli, senza figli, non volevamo mettere al mondo altri schiavi, di qui l’amore per gli animali, appreso da Emerenc e condiviso con lei. Poi iniziarono a cercarmi per le interviste, e viaggiavo molto: Parigi, Berlino, Londra. Solo di recente la Russia, con Putin, mi ha scoperta».
Lei è una donna di fede: scrive di amare le feste religiose e definisce la scrittura «uno stato di grazia».
«Ringrazio sempre Dio alla fine di un lavoro. “Anche stavolta mi hai assistito”, gli dico, “Eri alle mie spalle”».
Ad Emerenc però, che tanto diffidava del suo lavoro, fa pronunciare la più bella definizione della scrittura: gioco inutile ma faticoso, e da prendere terribilmente sul serio.
«Emerenc giudicava molto male tutto ciò che riguardava la cultura. L’uomo della sua vita prestò la sua straordinaria mente di letterato al partito: aveva ben ragione di diffidarne. Non era particolarmente colta, ma aveva un’intelligenza acutissima. Io sono una sciocca in confronto. E non è un caso se, ancora oggi, a 25 anni dalla sua morte, una processione di lettori venga quotidianamente a cercare la sua – non la mia - casa».
Ma sono, appunto, i suoi lettori.

Figure così esistono ormai solo nei romanzi?
«Non voglio pensarlo: le nuove generazioni ungheresi promettono bene. Credono nei valori che Emerenc rappresenta e che io esprimo con parole forse antiquate – onore, coraggio, ti aiuto anche se non mi conosci – ma ancora significative».

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