Talebani kamikaze a Kabul strage contro gli americani

Marcello Foa

Un’esplosione, potentissima. E poi una scena ormai tragicamente abituale: la carcassa annerita e fumante di un’auto, corpi dilaniati, dappertutto schegge di vetro e detriti sporchi di sangue. Ma non siamo a Bagdad, bensì a Kabul, ovvero in una città che finora era considerata piuttosto sicura, a dispetto dell’offensiva sempre più virulenta avviata dai talebani in altre regioni dell’Afghanistan. E non in una strada di periferia, ma in una delle vie più affollate e protette, a poche decine di metri dall’ambasciata americana.
Il bilancio serale è di sedici morti, tra cui sette stranieri, fra soldati (due americani) e guardie private. E non bisogna aspettare molto per sapere chi è stato: qualche minuto dopo l’attentato i talebani lo rivendicano, chiamando la Reuters con un telefono satellitare: «Siamo stati noi». Ma non rivelano quale fosse l’obiettivo del kamikaze: la rappresentanza diplomatica statunitense o, com’è più probabile, un convoglio militare Usa di passaggio?
Ufficialmente, non i civili che il gruppo fondamentalista sunnita, alleato storico di Al Qaida, assicura di non voler colpire. Ma, com’è avvenuto in passato, ieri ad aver perso la vita sono stati per lo più spazzini afghani che pulivano la zona in previsione delle manifestazioni per la commemorazione della morte del combattente antitalebano Ahmed Masood, a cui è dedicata una statua nelle vicinanze.
Sul posto, l’orrore. «Alcuni di loro sono stati fatti a pezzi», racconta con raccapriccio un agente di polizia. «Dappertutto ci sono sangue, brandelli di pelle e di carne», conferma ai reporter presenti Ahmad Zia Babori che gestisce una delle numerose botteghe della zona, densa anche di ristoranti e drogherie.
Di certo, il venerdì - giorno di riposo e di preghiera dei musulmani - nessuno si aspettava un attentato, men che meno perpetrato da un gruppo che predica il rispetto assoluto dei precetti del Corano. Ma negli ultimi mesi i talebani hanno moltiplicato le azioni a sorpresa, colpendo i militari della Nato, le forze dell’esercito regolare del presidente Karzai e i miliziani delle tribù nemiche, con modalità e tempistica sempre differenti. E ora ci si chiede se la bomba di ieri segni l’inizio di un’escalation del terrore nel cuore di Kabul o se si tratti di un episodio isolato o, è la terza ipotesi, semplicemente di una provocazione nell’imminenza del quinto anniversario dell’11 settembre.
I comandanti delle forze del Patto Atlantico confidano nell’arrivo dell’inverno, che in Afghanistan è particolarmente rigido e che rende impervio l’accesso ai rifugi sulle montagne, complicando le operazioni di guerriglia, sferrate con mezzi rudimentali. Non è un caso che l’attuale offensiva, condotta prevalentemente nelle province del sud, sia coincisa con lo scioglimento delle nevi, la scorsa primavera.
Un’offensiva durissima, inizialmente sottovalutata dalle autorità americane e dal governo afghano, che nei primi nove mesi dell’anno ha provocato la morte di 2.300 persone. Alcuni esperti del Pentagono ritengono che la violenza in Afghanistan già oggi sia superiore a quella in Irak.

E avvertono che per riportare stabilità e ordine nel Paese la Nato dovrà usare la forza, come è avvenuto sabato scorso, quando è stata lanciata la più grande operazione dal 2002 e che è costata la vita a 300 guerriglieri fondamentalisti. Altre seguiranno.

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