Entusiasta come sempre quando parla di cinema, in un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel il regista Quentin Tarantino ha definito la tedesca Leni Riefenstahl «la più grande regista mai esistita». La cosa forse scandalizzerà ancora qualcuno, ma chi è del mestiere, nel senso che lo fa o ci ragiona sopra, sa che, al di là delle perentorietà, si tratta di un giudizio condivisibile. Per capire la sua grandezza «bisogna guardare i suoi film sulle Olimpiadi», ha aggiunto Tarantino. La Riefenstahl fu un genio cinematografico, di quelli che segnarono un’epoca e da un’epoca furono segnati al punto tale da essere poi costretta a sopravvivere a se stessa, impossibilitata persino a negarsi o a smentirsi, chiusa per sempre in quel pugno di anni che videro l’ascesa al potere di Hitler e la trasformazione di un talento in strumento, più o meno consapevole di un regime.
Ancora negli anni Cinquanta, con brutale sincerità una rivista americana aveva riassunto così il problema: «Sei un regista di valore e lavori per Hitler? Allora sei un nazista. Lavori per Stalin? Allora sei un genio». L’articolo ricostruiva in parallelo le carriere della Riefenstahl e di Sergej Eizenstejn, il cantore della Rivoluzione d’Ottobre, premio Stalin, cineasta di punta del regime sovietico. Allora era troppo presto perché il senso di quel parallelo fosse compreso e accettato, e va anche detto che il ragionamento era un po’ contorto: dopotutto con quello Stalin gli Stati Uniti si erano alleati, e non si può essere totalitari a scartamento ridotto. A più di sessant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, tuttavia, i conti del dare e dell’avere, dei peccati e delle opere di bene si possono ormai fare senza isterie e senza preconcetti, come è appunto il caso di Tarantino. E si deve allora ammettere che non era colpa di Leni Riefenstahl. È la bellezza che non è democratica.
Sbagliando, qualcuno ironizzerà sull’ampiezza e la difformità degli entusiasmi tarantiniani: i b-movie e Lino Banfi, i western all’italiana e, appunto, Olympia... In realtà, dietro di essi c’è il riconoscimento di un artigianato, il saper far fruttare il poco che si ha, l’apprezzamento per il talento e il lavoro ben fatto e, se vi vuole, un’idea del mondo per nulla semplicistica e/o consolatoria, dove il bene e il male si mischiano e l’uomo non è un essere angelicato. Nel caso della Riefenstahl, c’è anche un elemento estetico, pubblico e privato, che nel regista-adoratore di un’attrice come Uma Thurman balza agli occhi: la purezza dei tratti, l’eleganza, come senza tempo, delle forme.
Tutta Leni Riefenstahl è racchiusa in pochi, folgoranti versi di Goethe: «E qua la mano./ Dovessi dire all’attimo:/ “Ma rimani! Tu sei così bello!/ Allora gettami in catene,/ allora accetterò la fine!/ Allora batta a morto la campana,/ allora, esaurito il tuo impegno,/ s’arresti l’orologio, cada giù la lancetta,/ per me finisca il tempo!”». È il patto siglato fra Faust e Mefistofele, ma la regista di Olympia non lo sapeva, o non se ne ricordava. Così, si provò a fermare l’attimo, nella sua bellezza, nello splendore della forma, nell’armonia del gesto, nella potenza dell’azione. Finì all’inferno.
Ci sono delle immagini che spiegano il fascino femminile meglio di qualsiasi analisi del rapporto uomo-donna. Non c’era alcuna ambiguità nella bellezza della Riefenstahl, e tuttavia si capisce come fosse più moderna rispetto al modello del proprio tempo. Una ripresa di Ebbrezza bianca, il film del 1931 di Arnold Franck, la vede con indosso una tuta bianca, le iniziali ricamate, che fa scomparire tutta l’estetica da baraccone dello sci contemporaneo. In Sos Iceberg, ancora di Franck, con calottina e occhiali da aviatore è perfetta; una foto di Time del 1936, mentre è intenta ad allacciare gli sci, i calzettoni ripiegati, pantaloncini corti e un body scollato, è un inno alla seduzione. L’inquadratura che la vede sul set di Olympia su un carrello mobile, girocollo bianco, maniche arrotolate, i pantaloni svasati, un paio di sandali bianchi, potrebbe fare da modello per un abito di Jil Sander o di Giorgio Armani settant’anni dopo. «La signorina Riefenstahl è un enigma» scrisse un giornalista inglese all’indomani di una conferenza stampa: «Una regista energica e un’affascinante ragazza che indossa adorabili cappellini».
Un corpo e un animo femminili, una volontà e un pensiero maschili. In questa dicotomia si compendiano il successo e la tragedia della Riefenstahl, nella vita pubblica come in quella privata. Il suo primo uomo la violenterà, i successivi amori vedranno sempre uno scontro di personalità, una lotta per non farsi mettere sotto, ma anche un’accettazione della legge del più forte. Se è lei a esercitarla, il rapporto non decolla, se è l’altro, dopo un po’ diventa conflittuale. Non era adatta a fare la moglie o la madre, ma neppure l’amante.
Nel lavoro, questo bisogno di imporsi, questa ansia di competizione, la seduzione della violenza e la plasticità della potenza concorrono a realizzare dei capolavori inquietanti nel loro alternarsi di luci e di ombre, nell’appagamento della forma e nel suo distorcersi prima della perfezione. I film romantici e sentimentali di cui sarà regista e protagonista prima dei documentari che ne sanciranno la grandezza e ne prepareranno l’esecrazione, sono in pellicola quello che le tele di Caspar David Friedrich sono state nell’arte. La natura come elemento primordiale, al cui richiamo non si può resistere, la solitudine dell’essere umano, la fascinazione degli estremi e dei contrasti. Le foto dei Nuba e poi quelle subacquee aggiungono quella fascinazione per i colori che non fece in tempo a sperimentare con la macchina da presa, ma le sinfonie di luci africane sono un tutt’uno con le cattedrali di luce dei congressi nazional-socialisti, con i rossi e gli azzurri degli sciatori del Tirolo su cui avrebbe voluto girare un film, con i neri e i viola di Emil Nolde di cui era appassionata o i gialli intensi di Van Gogh, altro soggetto cinematografico rimasto incompiuto.
La bellezza scandita dall’armonia dei corpi, la politica intesa come estetica, trionfo di composizioni, masse che si muovono all’unisono, movimenti perfetti, ordine e misura: tutto questo insieme fu l’attimo fuggente che la Riefenstahl cercò di fermare con la cinepresa. Tarantino sa di cosa parla, quando parla di Leni...
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