Tel Aviv vuole fare l’italiana e s’inventa capitale della moda

Tel Aviv vuole fare l’italiana e s’inventa capitale della moda

Tel Aviv«Vi voglio bene» dice Roberto Cavalli in ebraico e il pubblico della Tel Aviv Fashion Week (Tlvfw) applaude fino a spellarsi le mani. Poco dopo, alla sfilata con cui lo stilista toscano tiene a battesimo la neonata manifestazione in corso fino a stasera nella città più modaiola di Israele, scatta inevitabile la standing ovation anche perché i vestiti sono una meraviglia, vere e proprie opere d’arte. «Ci piacerebbe avere un italiano ogni volta: nella moda siete imbattibili» dichiara l’imprenditore Lev Orfin che ha organizzato la manifestazione con tanta buona volontà tra l’altro premiata da un felice lavoro di diplomazia. Infatti l’ambasciatore Luigi Mattiolo è riuscito a far firmare (scippandolo ai francesi che pare ci siano rimasti molto male) un accordo di collaborazione tra Camera nazionale della moda italiana e Tlvfw.
Del resto Israele può offrire qualcosa di cui gli stilisti italiani hanno disperatamente bisogno: giovani assistenti formati allo Shenkar Institute di Tel Aviv che è una delle migliori scuole di stilismo del mondo dove si sono formati designer di fama internazionale come Alber Elbaz di Lanvin. «Devo molto ai due israeliani che nel corso del tempo hanno lavorato con me: Tamara Jones ha segnato i primi entusiasmanti anni della mia carriera e Viktor Bellaish è arrivato proprio quando ho cominciato ad avere successo» ha detto Cavalli poco prima di mandare in passerella le sue stupefacenti creazioni della prossima estate e una carrellata di pezzi d’archivio assolutamente irripetibili. Inutile dire che nessuna delle sfilate viste in questi giorni può essere paragonata alla sua, ma senza dubbio i designer israeliani hanno delle belle storie da raccontare. Per esempio Dorit Bar Or, attrice di teatro prestata prima alle fiction e poi alla moda, spiega di essersi ispirata per la sua collezione agli abiti ricamati di Ovadia Yosef, il rabbino integralista che vuole la morte di tutti i palestinesi a cominciare da Abu Mazen. «Ho fatto ricamare i miei modelli alle stesse ortodosse che ricamano i suoi» rivela la signora raccontando poi di aver preso le forme anni Cinquanta e l’allure da diva-divina dall’immagine di Oum Kaltum, la celebre cantante egiziana con una magica voce paragonata a quella della Callas. «La mia musa resta comunque Golda Meir» conclude Dorit, mentre nel Tahana Complex, l’ex stazione ferroviaria di Tel Aviv in cui si svolgono le sfilate, compare a sorpresa la prima moglie di Moshe Dayan, l’eroe della guerra dei sei giorni. 95 anni portati da Dio, Ruth Dayan in gioventù si è occupata di moda per il ministero del Lavoro israeliano selezionando i più bei manufatti del Paese per Mazkit, marchio un tempo di culto tra gli amanti dello stile etnico.
È questa la miglior matrice del fashion system locale. Esemplare la vicenda umana e professionale di Tavalè, decana dei designer israeliani, nata in un kibbutz nel 1947. Matta come un cavallo, simpatica da morire e cara arrabbiata (da lei non si trova niente a meno di mille euro) Tavalè sfoggia una stella di Davide tatuata sulla guancia e accoglie i clienti nel suo negozio di Tel Aviv con una gigantografia di Rabin. «Tutte le donne dovrebbero vestirsi come kibbutzim - dice - con abiti che non stringono mai il corpo, sono pratici e soprattutto cuciti con amore».

Sull’idea di lavorare nello spazio tra le curve e la stoffa offre una discreta prova anche Sasson Kedem, un designer che ha studiato molto bene grandi firme come Rei Kawakubo di Comme Des Garçons, Romeo Gigli, Issey Miyake e Antonio Marras per poi riproporre tutto in salsa semplice e al tempo stesso speziata.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica