Ha l’espressione ammaccata di chi vorrebbe prendersela con l’universo intero e invece deve fare i conti soltanto con il penoso tennis appena sfoderato. Dovrebbe saperlo, ormai, che non esiste alcun sistema feudale quando impugni la racchetta. E, se non lo sa, ci pensa questa atomica grugnata a rammentarglielo. Succede così che sul finire del giugno 2012 il presunto valvassino Lukas Rosol lo sbatta fuori dal sacro tempio, Wimbledon, quando la manifestazione ancora albeggia.
È soltanto il secondo turno. Rafa Nadal è stato finalista l’anno precedente ed ha piazzato i gomiti sul posto numero due del mondo. L’erba non è casa sua, d’accordo, ma qui ha trionfato per la seconda volta soltanto un paio di anni fa, nel 2010. Dall’altro lato della rete, invece, si staglia il ceco Rosol, arrancante numero 100 del ranking, vittima sacrificale eletta dai bookmakers, che infatti lo quotano fiduciosamente a 31. Alto quasi due metri, legnoso, sostanzialmente incapace di offrire varianti succose ad un gioco rudimentale, avvitato intorno a legnate siderali e poco più.
Ribalta del Centre Court. Un sole tiepido bagna le divise candide dei due antagonisti. Parte stranamente contratto l’eroe iberico, offrendo qualche sponda di troppo al carneade. La presunzione non trova alloggio nella corteccia cerebrale del campione, ma un pizzico di legittimo snobismo è quasi fisiologico. Quell’altro è bassa manovalanza tennistica. Basterà digrignare i denti per rintuzzarlo. Succede però che Rosol la imposti tutta sul servizio e sulle badilate da fondo linea. È una brutale performance a tutto braccio. Poco male, si penserà, perché il Nadal di undici anni fa potrebbe ingurgitare chiunque. Invece vacilla. Suda più del consueto. Porta a casa un primo set tirato (6-7).
Rosol contempla quelle insperate fenditure e si ringalluzzisce. Il suo tennis prende vigore. Le gambe viaggiano in scioltezza e le braccia mulinano colpi come proiettili incandescenti. Nadal è inizialmente perplesso da quella bellicosa grandinata. Poi, gradualmente, ne diventa sopraffatto. Il ceco gli monta clamorosamente in testa nei due set successivi, distribuendo una slavina di siluri: 6-4, 6-4. Pubblico esterefatto. Silenzio glaciale. Ora gli allibratori si dedicano a rituali apotropaici. Lo spagnolo rumina pensieri negativi, ma quella rabbia accende il desiderio di rivalsa. Fa suo il quarto set (2-6) dilaniando l’impudente valvassino venuto dal nulla. Il tennis flaccido di qualche istante prima è già un ricordo debellato.
Ora l’inerzia del match pare tutta a suo favore. Nel frattempo però è calata l’oscurità. L’arbitro li richiama a sé per decidere il da farsi. Si accordano per terminare la partita con l’ausilio delle luci artificiali, chiudendo il tetto. Indoor però diventa un altro sport. Ma la leggerezza che fa inciampare Rafa è ancora peggiore. Non calcola, il gladiatore iberico, il tempo che ci vuole per riprendere con il quinto set. Servono quaranta lunghissimi minuti per completare le operazioni. Nadal pensava che avrebbero fatto molto prima. Così quell’inerzia è dilapidata. Rosol ha tutto il tempo per ricomporsi.
E, nel quinto, si avvera il cataclisma. Alle 22 britanniche, dopo oltre cinque ore di gioco e cinque aces del boemo, la contesa termina con un impronosticabile successo (6-4) per lo sfavorito. Nadal mugugna e borbotta. Quell’altro deve pizzicarsi le guance per realizzare che è accaduto davvero. Gli spettatori rimasti versano in stato catatonico. Più tardi, in conferenza stampa, Rafa ammetterà che la decisione di proseguire indoor, con tutto quel che ne è conseguito, è stata fatale.
Ma anche che, in fondo, era soltanto una partita di tennis.Sicuro. Anche se non capita poi così di frequente che 98 posizioni di distanza evaporino agli albori di un torneo – e che torneo – certificando l’infattibilità di un medioevo tennistico.
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