Il testimone al servizio del lettore

Alla fine, gira e rigira, la parola-chiave, per lui, è sempre una: fedeltà. Fedele alle amicizie titolava nel 1984 un libro non dissimile da questo, edito dal compianto Raffaele Crovi (allora al timone della piccola Camunia). Quel libro segnò l’inizio di una nuova amicizia, quella che nacque tra noi.
Geno Pampaloni. Quello che è stato uno dei tre o quattro più importanti critici letterari del secondo Novecento era restìo a pubblicare in volume le proprie recensioni (e lo capisco bene), preferendo dare alle rare uscite in forma di libro altre impronte. Anche Una valigia leggera, la raccolta di scritti sparsi ora pubblicata da Nino Aragno per la cura di Milva Maria Cappellini e Anna Pampaloni, nonostante le sue trecento pagine e le diverse fonti dei testi pubblicati, entra nel solco di una sorta di volontà di scomparsa, di uscita di scena, che condusse Pampaloni a volersi «minore» nei suoi libri rispetto alle uscite, sempre autorevoli, su quotidiani (tra cui il Giornale) e periodici.
Come se, nei libri, negli scritti di prosa varia, quell’autorevolezza dovesse cedere il passo a una specie di rientro in sé dell’attitudine critica, a un senso della secondarietà del fare critica rispetto a quello che, della critica, è l’oggetto: il romanzo, la poesia. Questa secondarietà non è un’acquisizione della tradizione prosastica italiana. Dal De Sanctis a Longhi a Contini, è lunga, anche restando alla letteratura post-unitaria, la schiera di coloro che concepirono il fare critico allo stesso livello del loro oggetto. Longhi e De Sanctis sono scrittori tanto quanto Verga e Gadda. Pampaloni, viceversa, praticò sempre il proprio ruolo secondo un’altra impostazione, che non esito a definire «di servizio».
Una valigia leggera è un libro bellissimo sia nei pregi sia nei difetti, che sono pregi e difetti dello scrittore e non delle (bravissime) compilatrici. E tutti sappiamo come, a fare letteratura, siano tanto il pregio quanto il limite.
Il primo grande pregio di Pampaloni è un’umiltà che lo porta ad essere sempre testimone prima che giudice - e questo vale, a dire il vero, anche per il Pampaloni critico. Gli articoli degli anni Quaranta sono senza dubbio tra i più vivaci, sia quando trattano dell’Italia in guerra, sia quando descrivono un Dopoguerra doloroso ma alacremente - ruralmente - lanciato verso la riscossa.
Molte sono le figure che tornano, dentro il libro: scrittori, pittori, artisti amici (che stretta quando dice di aver «sentito dalla stanza accanto il grido selvaggio di Rosai morente» - Rosai che fu mio prozio e totem della mia famiglia materna!), ma anche figure come Adriano Olivetti, imprenditore ma insieme protagonista di un miracolo se vogliamo tutto piemontese: un modello non traumatico di passaggio dal mondo rurale a quello industriale.
E il testimone attesta che una è la qualità della rinascita italiana: la fedeltà. C’è un’Italia intelligente, lavoratrice, amante del lavoro, che è la stessa di uno, due, tre secoli fa. Un’Italia fatta di giovani che amano calcare le orme paterne e, su queste orme, innovare, perché «la fedeltà al proprio lavoro è una delle principali virtù dell’uomo» (quale preside ha più il coraggio di dire queste parole ai propri studenti?). È un’Italia, quella di Pampaloni, di cui si è sempre parlato poco, e di cui men che meno si parla oggi - e che, pure, esiste, a dispetto delle profezie pasoliniane.
Col passare degli anni e col declino della salute il paesaggio italiano diviene sempre più memoriale, perde mobilità, si fissa in immagini tipiche, soprattutto quando l’occhio del ricordo si sofferma sui paesaggi della Toscana. È come se l’anziano intellettuale, provato nel corpo, intendesse fissare dei modi, stabilire una sorta di canone segreto non solo delle lettere ma anche dello sguardo. E se - come nel commovente scritto che dà il titolo al libro - lo scrittore abbraccia in un unico sguardo paesaggi grandi e piccoli («Bocca d’Ombrone; le Dolomiti rosate della val Badia; la spalliera nevosa delle Alpi vista dal Colle dei Cappuccini, a Torino, al di là dei meandri dei fiumi che scorrono nel fondovalle; il ponte di legno di Lucerna; il mare azzurro da cui emergono gli scogli di Ile Rousse, in Corsica: le tre finestre verdi della casa della Liliana, a Grosseto...») e momenti di letteratura («Vergine madre, figlia del tuo figlio», «e vidi il tremolar della marina»...), è a quest’ultima che il critico chiede occhi per guardare le cose e per riordinare le memorie: gli ultimi occhi, quelli definitivi.
Come nello scritto del 1991 dedicato a Firenze, il cui incipit - «Forse perché...» - sembra voler consegnare al Foscolo il diritto all’ultima parola: «...

e le convalli/ popolate di case e d’uliveti,/ mille di fiori al ciel mandano incensi». Andarsene dal mondo sapendo di appartenere per sempre a queste parole è una forma di felicità: semplice, terrena, laica, ma felicità.

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