Se ci fosse ununica lingua comune, non avremmo più bisogno della traduzione. Ma utilizzando come strumento di comunicazione una sola stessa lingua, le reciproche difficoltà di comprensione sarebbero superate? Non è forse nella sfida della traduzione - sempre esposta al rischio del fraintendimento - che si gioca il destino dellintegrazione culturale? La traduzione, infatti, è prima di tutto sempre uno scambio tra due intenzioni. Lintenzione di collocarsi nellorizzonte di senso della lingua straniera e quella di accogliere la parola dellinterlocutore nellorizzonte di senso della nostra lingua. Attraverso la traduzione si verifica una «ospitalità linguistica». Nel senso che - come ha scritto Ricoeur - «al piacere di abitare la lingua dellaltro corrisponde il piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora daccoglienza, la parola dello straniero».
Alle implicazioni etiche del linguaggio è dedicato un recente libro di Giuseppe DAcunto, La parola nuova. Momenti della riflessione filosofica sulla parola del Novecento (Rubbettino, pagg. 146, euro 15). Se la funzione principale del linguaggio è la comunicazione, ciò che viene comunicato non è il significato delle singole parole, ma la tradizione linguistica che in esse si è depositata. Ecco perché la traduzione è pervasa da una tradizione, da un ethos. Lethos dellospitalità. Necessario, oggi, allEuropa nella fase della sua ridefinizione geo-politica.
Naturalmente, lethos dellospitalità che caratterizza la traduzione non elimina le reciproche incomprensioni e i conflitti tra le molteplici interpretazioni. Guai, del resto, se li eliminasse. Perché cancellerebbe la vita stessa che batte nel corpo di ogni singola parola. Lethos dellospitalità può funzionare invece come antidoto. Nei confronti, soprattutto, dei sempre possibili ripiegamenti di ciascuno di noi nelle rispettive e recintate tradizioni linguistiche.
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