Nulla a che vedere con l'eleganza di Crespi d'Adda, il villaggio attorno alla miniera di Ribolla, a Roccastrada in provincia di Grosseto, racconta di una vita dura, semplice e purtroppo di una tragedia che, nel 1954, provoca la morte di 43 persone. Costruzioni grigie, asettiche, a tratti alienanti, sono la prova di una agglomerato voluto più per esigenze di praticità lavorativa (l'estrazione della lignite) che per aggregare la comunità di operai. «Agli inizi degli anni Cinquanta - scrive bene Erino Pippi, presidente della cooperativa Unione Ribolla - nel piccolo Villaggio minerario di Ribolla tutto apparteneva alla società Montecatini. Erano di sua proprietà le case, le strade, l'acquedotto, la chiesa, l'ambulatorio, il dopolavoro, la scuola, la squadra di calcio e naturalmente la miniera. Erano di sua proprietà, nel senso che risultavano al suo esclusivo servizio, anche il medico di fabbrica, il maresciallo dei Carabinieri ed il parroco. I minatori, che non volevano essere compresi nell'elenco delle cose possedute della società, erano in perenne conflitto con i padroni della miniera».
Le poche abitazioni del villaggio, dove abitavano i minatori e le loro famiglie, vengono ricavate usando le vecchie costruzioni ed i capannoni che la società mineraria non utilizza più. Costruzioni basse, appiattite: due stanze, camera e cucina, senza gabinetto che, quando c'è, è collocato all'esterno in condominio fra due o più famiglie, spesso numerose. Famiglie povere, ma dignitose, umili e fiere che, tra un'abitazione e l'altra, coltivano piccoli orti da cui ricavare patate, pomodori e insalata. La vita è scandita dal suono delle sirene, ogni otto ore, per annunciare il cambio turno in miniera: alle 7 del mattino, alle 15, alle 23. Poi l'incidente che spazza via tutto. Il 4 maggio 1954 Ribolla viene devastata da un'esplosione di gas, il grisù accumulatosi per la scarsa ventilazione in una galleria a 260 metri di profondità, che non permette il ricambio dell'aria: muoiono in 43 nella sezione «Camorra Sud» della miniera di lignite. I funerali mobilitano 50mila persone. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decide la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiede ben cinque anni. Di quell'episodio rimangono alcuni resti della miniera e il Monumento al minatore di Vittorio Basaglia.
La vicenda è estesamente raccontata da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola ne I minatori della Maremma, pubblicato nel 1956 e richiamata nel romanzo di Bianciardi La vita agra (e quindi nel film di Carlo Lizzani, tratto dal romanzo).
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