TRAKL Il poeta soldato che danzava sull’abisso

Tradotte per la prima volta in italiano le lettere ad amici, editori, compagni. E alla sorella Grete, con la quale ebbe un rapporto incestuoso

L’immagine del poeta che si sporge sull’abisso non vuole impressionare anime sognanti e spiriti romantici. Né aveva l’aria d’esser più che tanto incline a romanticherie e sogni - stando al documento che riferisce d’una lunga serata in compagnia di Georg Trakl (1887-1914) - un Joseph Oberkofler qualsiasi. Ma impressionato restò impressionato dalle abissali arditezze dell’amico poeta. S’era fatto tardi quella volta tra un bicchiere e l’altro. S’era spinta fino a notte inoltrata quella sera invernale del 1913. Si doveva rientrare alla svelta dalla residenza di Hohenburg, arroccata su alture innevate, e accettare - non c’era altro mezzo - un passaggio sulla slitta del compagno di bevute. Trakl - sobrio, diabolicamente lucido - spinse il veicolo per sentieri erti e scoscesi, fece accomodare l’ospite, saltò sul sedile anteriore, e si lanciò verso valle su neve pressata e ghiaccio lustro. «Non guidava una slitta, era un proiettile. Sfrecciava tra dirupi e foreste buie infischiandosene di qualsiasi pericolo». Non restava che affidarsi al guidatore. «E come sapeva guidare!». Imboccava le strade «con sicurezza micidiale. Non so dire come abbia fatto a dominare il pericoloso passaggio». Joseph Oberkofler, terrorizzato - «ammutolito» -, allora non seppe dire come.
Un’ipotesi adesso si può forse avanzare, forti anche delle testimonianze epistolari di tutti Gli ammutoliti. Lettere 1900-1914 (Quodlibet, pagg. 230, euro 16,50) che ebbero la sorte di incrociare il genio austriaco nel suo veloce, spericolatissimo passaggio nel mondo. Era la vigilia della sua partenza per la guerra, della sua dipartita da questa terra, quando - ventiseienne - Trakl si produsse in quel numero da funambolo delle nevi. L’anno dopo, trasferito in Galizia, coinvolto nel massacro di Grodeck come ufficiale addetto alla sanità (curò da solo centinaia di feriti gravissimi), morì suicida all’ospedale psichiatrico di Cracovia - il 3 novembre 1914 - per un’overdose di cocaina (la dimestichezza con le droghe, di cui fece uso tutto la vita, gli derivava dall’aver lavorato giovanissimo in una farmacia come apprendista).
Prima di cedere alla polvere bianca - «la neve» - però, e di tacere per sempre, in nemmeno un trentennio aveva lasciato senza parole tanti compagni di viaggio. Anche illustri, come Ludwig Wittgenstein che del tacere «di tutto ciò di cui non si può parlare» aveva fatto filosofica dottrina, ma che già era stato zittito dalla lettura dei suoi versi enigmatici. «Non li capisco, ma il loro tono mi piace. È il tono di un genio» disse, destinando al giovane geniale una grossa somma ereditata dal papà e offerta ad artisti austriaci bisognosi.
O come Rainer Maria Rilke che, letto il suo Sebastiano in sogno (raccolta incompiuta e postuma uscita dopo le sole Poesie pubblicate in vita), ammise di sentirsi intimamente vicino all’autore, ma di poterlo guardare solo dall’esterno, «col viso schiacciato sul vetro». O Karl Kraus, che di lui disse: «Mi è sempre stato incomprensibile come potesse vivere. La sua follia lottava con eventi divini». O Paul Celan che, «in pellegrinaggio segreto», si recò sulla sua tomba a Mühlau. E il filosofo Martin Heidegger, che In cammino verso il linguaggio tentò l’enigma del suo «pensiero poetante» e, ferma sul suo tavolo, teneva la sfinge del suo busto in effigie.
Più della memoria dei sommi, però, doloroso è il ricordo del suo fedelissimo attendente, Matthias Roth, che lo vide morire e si chiuse «per sempre la sua lapide nel cuore». E meglio di quello filosofico, è il dialogo epistolare - con una pluralità di sconosciuti: editori, parenti, compagni di scuola, redattori, la sorella Grete con la quale ebbe un rapporto poi diventato incestuoso e che segnerà pesantemente la vita di entrambi, tanto che la sorella si ucciderà poco dopo la morte di Georg... - a offrire del poeta un ritratto sconvolgente e la produzione scritta più cospicua. Lo dirige con mano di regista nascosto Clio Pizingrilli, curatore del carteggio finora inedito in Italia che, sotto gli auspici del più dialogante dei filosofi - Platone - mette in scena il drammatico confronto di Trakl con «l’umanità più muta». «Prendiamo l’esempio di un telo o di qualsiasi altro oggetto a intreccio», cita dalle platoniche Leggi in epigrafe al libro che, intitolato come la poesia Agli ammutoliti, scioglie una trama di relazioni intrecciata con fitto scambio di lettere. Le missive partivano da Innsbruck, Vienna, Salisburgo. Dotate di indirizzo e destinatario. Ma il loro contenuto suona come un monologo tragico, un lirico assolo, un grido: che il canone epistolare induceva a declinare al vocativo e rivolgere a un tu. Anche solo per «porgersi la mano e dirsi: eccomi, sono qua!». «Ti trasmetto pochi ritmi dal mio inferno». «Mi sono rintanato e ho chiuso occhi e orecchi». «Ho udito ululare nel sangue i demoni». Gli interlocutori ascoltano, spaventati dal Drachentöter («l’ammazzadraghi»), Schurcel («l’orso»), l’Ecce homo: come Trakl era detto per il corpo massiccio, il coraggio sventato, il ghigno di scherno sempre impresso sul volto affacciato «al di là di mondanità e successo» o al di sopra dei burroni di montagna. Il più arrischiato dei suoi slanci però è, visto da valle dopo la caduta, quello verso il futuro.

«Nulla di meglio che guardare con occhi sereni l’avvenire per godere interamente del presente», scriveva il poeta che, giocando d’anticipo sull’avvenire, gli correva incontro come un proiettile, con sicurezza micidiale.

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