Transizione senza meta

Piero Fassino, durante il lungo discorso al parlamentino della Quercia nel quale ha proposto una «transizione graduale» al Partito democratico, non ha saputo resistere alla tentazione di indicare i suoi punti di riferimento. Ha citato per primo Tony Blair e lo ha fatto con un certo coraggio, vista l'ostilità diffusa nella sinistra italiana nei confronti del premier britannico. Subito dopo ha tessuto l'elogio degli spagnoli Gonzalez e Zapatero citandoli come i leader che hanno assunto i valori della modernità. Non poteva poi mancare il riferimento alle socialdemocrazie scandinave che hanno ripensato il loro welfare. Il quarto posto è stato riservato a Ségolène Royal, indicata come l'erede del dimenticato e un po' imbarazzante François Mitterrand. Perfino i socialisti portoghesi e gli austriaci hanno avuto il loro posticino.
Anche una persona disattenta riesce a notare un'importante omissione: la socialdemocrazia tedesca - che con Brandt e Schmidt è stata la madre del concetto di sinistra europea - non è più un punto di riferimento del leader diessino. Imbarazzo per la scelta della Grande coalizione, che in Italia sarebbe stata tradotta come un cenno subliminale alle «larghe intese»? Non credo proprio. La ragione è più semplice: la Spd è quel partito che ha deciso di rifiutare la collaborazione di governo con l'estrema sinistra e che, quando il suo leader era Gerhard Schroeder, preferì la scissione di Oskar Lafontaine ad un compromesso destinato a snaturarne l'impronta riformista. In altre parole l'opposto del passato e del presente dei Ds e del marchio di fabbrica dell'Unione.
Non c'è dunque da stupirsi. C'è solo da chiedersi perché ci siano tanti tormenti e tanti dilemmi di fronte alla costruzione del Pd, se poi non viene affrontato neanche alla lontana il problema di fondo, quello della collaborazione con i neo-comunisti e con gli antagonisti nel governo di una società complessa. È dal 1989 - c'era ancora il Pci - che l'attuale classe dirigente diessina non compie il passo necessario e non riesce così a darsi una cultura politica chiara e trasparente, discutendo all'infinito gli stessi argomenti: come essere socialisti all'europea e come essere anche democratici all'americana, come tenere insieme il proprio elettorato cambiando identità, come evitare scissioni a sinistra contaminandosi con l'innovazione.
Nel suo impianto, l'ultimo discorso del leader ds appare la stanca ripetizione del vecchio rito, che si ripete da diciassette anni, fondato sulla liturgia del «nuovo inizio». Almeno Achille Occhetto aveva delle idee, che poi non riuscì a realizzare. Ma, in lenta successione, D'Alema, Veltroni e ora Fassino hanno seguito il metodo di annunciare con enfasi il cambiamento, omettendo però di riempirlo di contenuti per paura di subire scissioni e creando solo una grande melassa. Con il solo effetto di perdere pezzi e di invecchiare, restando post-comunisti all'eterna ricerca di una cultura e di un'identità.
C'è da scommettere che adesso ci si continuerà a chiedere quanto sia più vicino e quanto più lontano il Partito democratico. Come, sotto altro nome, se ne discusse nel '91, nel '95, nel '99, nel 2002. Una discussione davvero poco interessante, visto che né sotto la Quercia né sotto la Margherita si affronta la questione vera, cioè l'autonomia e l'autosufficienza di una forza riformatrice rispetto alla sinistra antagonista.

Quella che, in Germania, Schroeder ha avuto il coraggio di risolvere per consentire alla Spd di restare forza di innovazione e di governo anche al prezzo, davvero sopportabile, di essere escluso dal pantheon di Piero Fassino.

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