Secondo allestimento di Turandot in poco tempo. Dopo l'Arena di Verona, il Teatro alla Scala. Messa in scena guidata da Davide Livermore: scenari in bilico fra distopia e favola, folla pechinese feroce al punto giusto, principe di Persia strapazzato in rituali sadici con nudo integrale e statuario pronto alla decapitazione, ministri gestori di gaie alcove bordellesche, l'imperatore in vesti da Confucio domestico, e discutibili luminarie, teschi alla Darth Vader, sfere rotanti, lune sanguinarie, cinesine trotterellanti, pargoli sapientini che suggeriscono gli indovinelli. Molto interessante la concertazione del direttore Michele Gamba. Ha inquadrato Turandot come l'opera aperta al secolo XX che è, sottolineando con il peso giusto il clima mortuario del primo atto, l'espressionismo onirico della scena degli enigmi, ecc. Fra i giovani direttori di cui la Scala vanta una sorta di incubazione stagionale, Gamba è quello che si va a sentire con la gioia di scoprire come ci racconterà anche cose date per assodate.
A differenza della precedente Medea, ha disposto di una compagnia di canto all'altezza: Turandot era la regina Netrebko sciorinante canto stellare; suo partner Yusif Eyvazov, credibile, virile, predace Calaf; Ministri a denominazione di origine controllata (il coreano Sung-Hwan Damien Park, i cinesi Chuan Wang e Jinxu Xiahou) e molto ben preparati; un po' nell'ombra Rosa Feola (Liù), cavernoso Timur (Vitaly Kovaliow); Mandarino (Adriano Gramigni) poco araldico.
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