Per tutta la vita Miglio studiò la lezione della geopolitica

Il volume, curato da Damiano Palano, consente di ripercorrere la genesi del pensiero del politologo

Per tutta la vita Miglio studiò la lezione della geopolitica

Gli studi di Gianfranco Miglio sulle trasformazioni del sistema interstatale europeo e sulle istituzioni moderne, oltre che sul federalismo, restano non solo presenti nel dibattito accademico ma, col passare degli anni, rendono ancor più centrale uno studioso che, invece, deve gran parte della sua popolarità all'impegno politico.

È proprio la militanza a mostrarci un Miglio impegnato per una riforma neo-federalista e quasi pronto a sottodimensionare la riflessione internazionalistica che, al contrario, è stata corposa e continuativa. La sua formazione si modellò in un ambiente in cui non poteva essere in alcun modo marginale la politica internazionale e il ruolo dell'Europa nella trasformazione del sistema globale ma, tutto questo, si muoveva dentro una personale teoria per la quale i fatti interni vanno sempre ad incidere nei grandi sommovimenti storici perché esisterebbero precise «regolarità».

Ne fornisce prova il volume curato da Damiano Palano (La lezione del realismo, Rubbettino, pagg. 250, euro 26,60) che contiene molti scritti inediti e articoli che coprono un ampio arco di tempo (dal 1945 al 2000) e segnalano almeno tre elementi distintivi: la teoria della «regolarità della guerra», l'utilizzo di un «realismo migliano» che si discosta sotto diversi aspetti dal realismo fissato nel dibattito internazionalistico da autori come Morgenthau o Mearsheimer, e soprattutto l'idea della compenetrazione diretta tra fatti interni degli Stati e fatti esterni. Una complessa teoria del ciclo politico che non ebbe modo di sistematizzare in versione definitiva ma che, in questi scritti giornalistici, il lettore vedrà affiorare da ogni singolo rigo.

Miglio infatti inaugura gli scritti di politica internazionale già a fine guerra, nell'aprile del 1945. Il primo numero del Cisalpino, testata fondata da alcuni federalisti vicini alla Dc, ospita un articolo di questo ventisettenne, laureato in Giurisprudenza con una tesi sul diritto internazionale, nel quale oltre a manifestare aspettative nei confronti degli Alleati, si invitano gli italiani a evitare gli errori compiuti nel processo di unificazione nazionale e si propone una riforma federale dello Stato in modo da non cadere di nuovo «in un rabbioso nazionalismo».

In questa prima fase post-bellica è già in nuce tutto il suo percorso teorico. Ciò accade perché nel frattempo ha scoperto e approfondito la «categoria» del politico fissata da Carl Schmitt nel Begriff des Politischen e quindi inizia a prendere le mosse una prospettiva analitica che non si focalizza più sulle relazioni fra Stati e fra unità politiche autonome, ma sull'interno delle singole comunità. Le cause della fragilità internazionale, e perciò della guerra, andrebbero rintracciate non più nell'assenza di istituzioni condivise, ma nella conflittualità dentro i confini. Questa sua teoria generale ha come fondamento l'idea che ogni sintesi politica possa sostanziarsi solo con un nemico, convinto che il controllo della conflittualità interna dipenda dalla opportunità di proiettare le tensioni verso un nemico esterno: «I grandi imperi possono essere tenuti insieme soltanto scaricando le latenti conflittualità interne con l'aggressività esterna, e, quindi, offrendo alla parte più attiva e irrequieta della popolazione una causa per la quale battersi».

Anche per i nuovi equilibri creati dalla Guerra Fredda, Miglio aveva oramai abbandonato la ricerca sulla Humana Respublica, vale a dire il tentativo di costruire un ordine giuridico internazionale in grado di limitare il ricorso alla guerra. Ma, per taluni, sembrò anche accantonare gli interessi internazionalistici che sarebbero tornati in superficie solo quarant'anni dopo, con l'insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca e con quella nozione di «ritorno al privato» che da tendenza stava diventando prassi consolidata. Come dimostra ampiamente il volume curato da Palano quello fu un grave errore di valutazione da parte della critica.

Di questi articoli che coprono sessant'anni di vita di Miglio colpiscono però due elementi. In primo luogo, il quadro di fondo su cui cercò di indirizzare i suoi studi, l'invito a non rivolgere l'interesse ai fenomeni congiunturali della politica ma verso le grandi trasformazioni. E infatti, ancora negli anni '80, così scriveva: «La mia attenzione per i possibili cambiamenti di medio e lungo periodo deriva dal fatto che non dimentico mai di essere tenuto a pensare e a lavorare per i miei studenti».

E poi una sorta di disillusione finale. Nell'ultima fase lo accompagnò la convinzione che quel «ritorno al privato», oltre allo Stato, stava conducendo anche la politica verso il suo definitivo il tramonto. Non ebbe il tempo di sviluppare questa teoria.

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