Accecato, o, peggio, annientato nella mente e nellanimo.
Non dalla gelosia o dallodio che sono, nella cronaca di mille delitti, il movente della banale routine della violenza.
No. La storia e il delitto agghiacciante commesso e confessato da Alberto Arrighi, quarantanni, sposato e padre di due figli, uomo integerrimo, dalla fedina penale immacolata, comincia e finisce dentro un oscuro gorgo, in cui la disperazione e la crisi economica possono far precipitare. In cui il buio che, allimprovviso, ti circonda e ti isola, può farti pensare che lunica via duscita sia uccidere. Già, la disperazione. Come diceva Victor Hugo «la disperazione è un contabile. Vuol far tornare i conti. Niente le sfugge. Addiziona tutto. Non molla neppure i centesimi. Rimprovera a Dio i fulmini e i colpi di spillo. Vuole sapere come regolarsi con il destino. Ragiona, pesa e calcola». E qualche volta, appunto, uccide o fa uccidere. E proprio i conti che non tornavano più erano diventati lossessione di Arrighi. Persona conosciuta e apprezzata in tutta Como, Arrighi lavorava addirittura come consulente balistico per la Procura. Ha collaborato anche per lindagine sulla strage di Erba. Gestiva la storica Armeria di via Garibaldi, un negozio di armi e articoli per cacciatori aperto dal 1938, nel cuore di Como. Tempo fa però erano cominciate le prime difficoltà economiche, diventate sempre più insostenibili tanto che, a novembre, aveva dovuto licenziare il personale. Prestiti e debiti. Contratti magari a caro prezzo. Così lunedì sera Alberto Arrighi ha dato appuntamento, nel suo negozio di armi, al suo socio in affari, Giacomo Brambilla, 43 anni, già titolare di alcuni distributori di carburante. Voleva parlargli, chiarire. Gli doveva parecchio denaro: si parla di 200mila euro, tanto che forse avrebbe dovuto cedergli il negozio. La sua vita. La vita della sua famiglia.
Fatto sta che, ad un certo punto, secondo la ricostruzione resa dallo stesso Arrighi, la discussione fra i due è degenerata e l'armiere ha sparato con una pistola, una Beretta calibro 22, presa dalle sue vetrine, uccidendo Giacomo Brambilla. Poi ha caricato il cadavere sulla sua auto e, oramai sconvolto e in preda al panico, ha pensato di renderlo irriconoscibile. Si è diretto in un paese vicino, dove il suocero (che ieri pomeriggio è stato fermato dagli inquirenti che intendono accertare se abbia avuto o meno un ruolo di complicità nella vicenda) ha una pizzeria.
Qui Alberto Arrighi ha mozzato la testa del cadavere e ha cercato di bruciarla nel forno. Poi è risalito in auto, ha guidato per quasi duecento chilometri fino a Crevoladossola, in Piemonte, un paese dove era solito andare in gita: lì ha abbandonato il corpo decapitato del socio-rivale in affari sul greto di un torrente. Quindi ha fatto ritorno nel suo negozio, a Como. Dove nel frattempo era scattato lallarme dato dalla convivente di Giacomo Brambilla, preoccupata perché non lo vedeva rincasare. E alla polizia la donna ha parlato di un appuntamento che il compagno aveva con l'Arrighi nel suo negozio. Entrati nell'armeria, gli agenti hanno trovato tracce di sangue e, nel retrobottega, il disordine tipico di una violenta colluttazione.
Fermato e portato in questura larmiere non ha potuto fare altro che confessare il delitto, mostrando larma che aveva usato e riposto in vetrina e indicando anche agli investigatori dove trovare i resti della vittima che aveva sezionato: la testa nel forno, il corpo sul greto del torrente lungo la statale del Sempione. In quelle zone che, quandera felice e sereno, Alberto Arrighi, luomo stimato e apprezzato da tutta Como, portava la sua famiglia per vivere ore dallegria.
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