Uso politico dei sondaggi di regime

Dalle pagine del Corriere il professor Renato Mannheimer ha cercato di spiegare il risultato del sondaggio che ha attribuito al governo Prodi il recupero di sei punti nel gradimento degli italiani. Facendolo, ha però avvertito che è una risalita provvisoria, destinata a evaporare senza la realizzazione della «fase 2», cioè la stagione delle riforme chieste da Ds e Margherita ma osteggiate dalla sinistra massimalista. Si tratta di un esplicito sostegno a Fassino e a Rutelli, nel conflitto che lacera l'Unione. Un uso politico dichiarato della rilevazione dell'umore pubblico. Nulla di nuovo, rispetto al senso assunto negli ultimi anni dalle indagini demoscopiche, che hanno soprattutto contribuito a creare un clima, senza però riuscire a prevedere quasi mai i risultati reali.
Tutti ricordiamo che alle ultime presidenziali americane, stando al voto virtuale, John Kerry avrebbe dovuto battere George W. Bush e che, lo scorso aprile, la Casa delle libertà avrebbe dovuto perdere per quattro o cinque punti percentuali. È passato un po' di tempo e forse si è dimenticato che, nella primavera del 2005, il professor Mannheimer considerò possibile il raggiungimento del quorum nel referendum sulla fecondazione assistita - il Corriere si era direttamente impegnato nella campagna per il «sì» - e sbagliò la sua previsione di circa una ventina di punti. Si tratta di casi esemplari, nei quali l'elettore ha avuto un comportamento diverso da quello che era stata segnalato e non si è lasciato condizionare più di tanto dal clima.
Viviamo in una stagione in cui il fallimento dei sondaggi è diventata la norma e in cui la loro precisione è l'eccezione. Da tempo si discute sulle ragioni del divario tra i risultati annunciati e quelli reali. Non si è arrivati ad una conclusione. Ma è impossibile non notare che c'è un vero e proprio pacchetto unico tra l'orientamento prevalente nel sistema mediatico e i rilevamenti di opinione o la loro gran parte. Con un meccanismo di supporto reciproco, che poi investe direttamente le leadership e tende a condizionarne le scelte. È politica, sotto altro nome.
In questo caso il messaggio è chiaro. Il Corriere interviene direttamente. Lo ha fatto fin dalla campagna elettorale, convinto - come scrisse in un famoso editoriale il suo direttore - «che la coalizione costruita da Romano Prodi abbia i titoli atti a governare al meglio per i prossimi cinque anni». Continua a farlo, nonostante che la maggioranza assoluta degli elettori, come ha notato lo stesso Mannheimer, disapprovi l'operato dell'esecutivo e la Finanziaria che sta varando. Non prende comunque in considerazione l'esistenza di un'opposizione, non accenna alla possibilità di un'alternativa e scommette sulla «fase 2» presentandola come il bivio tra la rinascita e il collasso.
In tutto questo non c'è l'Italia bipolare. C'è un monopolarismo, in cui tutto si gioca fra la sinistra di Bertinotti e Diliberto, il centro di Prodi e la destra di Fassino e Rutelli. La maggioranza del Paese è fuori dal quadro. È ridotta ad un'area di «disapprovazione», che però si restringe per ragioni definite di immagine - la compattezza parlamentare dell'Unione - e sulla quale si ritaglia un clima di attesa. Ovviamente nessuno può prevedere l'evoluzione della profonda frattura tra governo ed elettorato avvenuta in pochi mesi.

Ciascuno sa però, se non altro per esperienza personale, che questa frattura esiste, pesa ed è reale. Al di là di sondaggi che suonano soprattutto come editoriali di indirizzo, di auspicio, anche di esorcismo se si vuole, e di intervento diretto nella new age del fallimento dell'Unione.

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