Vanacore suicida, l’ultimo grido: «Ucciso da vent’anni di sospetti»

TarantoQui, in questo angolo di Puglia, aveva scelto di vivere per sfuggire ai fantasmi che lo inseguivano e tormentavano da vent’anni; qui ha deciso di morire: si è avvelenato e si è lasciato andare in mare dopo essersi legato una caviglia con una corda fissata a un albero. Lui, Pietro Vanacore, 68 anni, il portiere del palazzo di via Poma, a Roma, dove il 7 agosto del ’90 fu uccisa Simonetta Cesaroni, l’uomo arrestato e poi liberato e infine scagionato da tutte le accuse, si è suicidato nelle acque di Torre Ovo, frazione di Torricella, minuscolo centro vicino a Maruggio, una quarantina di chilometri da Taranto, poco più di tremila abitanti sparpagliati lungo un litorale bagnato da acque cristalline, una costa presa d’assalto dai turisti durante l’estate e desolata in inverno.
Il cadavere è affiorato quando mezzogiorno era passato da circa mezz’ora e adesso nuovi dubbi sembrano destinati ad alimentare un giallo senza fine. «Venti anni perseguitati senza nessuna colpa», c’è scritto su uno dei due messaggi di addio lasciati con un pennarello nero dall’ex portinaio, pugliese di Sava, provincia di Taranto, che dopodomani sarebbe dovuto tornare in un’aula di giustizia per testimoniare nel processo contro Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta, accusato di aver assassinato la ragazza con 29 coltellate una vita fa, quando aveva 21 anni. «La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata», dice Paolo Loria, avvocato di Busco. E getta nel calderone di questo giallo infinito un’altra ombra: «Lui ha vissuto con rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché fosse l’autore dell’omicidio ma perché sapeva. Evidentemente non poteva parlare neanche a distanza di anni, non se l’è sentita in sostanza di affrontare i giudici e gli avvocati in aula».
Un bigliettino era sul tergicristalli dell’auto, una Citroën Ax grigia; l’altro era sul lunotto posteriore della macchina, parcheggiata poco distante dal mare: così Vanacore ha annunciato la scelta di farla finita. Sarebbe stato visto armeggiare con una corda, almeno così ha detto una testimone. Ma c’è chi avanza già dubbi sulla ricostruzione. L’acqua troppo bassa per affogare, la corda, i messaggi pieni di rabbia più che di disperazione. Elementi che secondo il criminologo Francesco Bruno, fanno addirittura dubitare che si tratti davvero di un suicidio.
I carabinieri sembrano avere invece pochi dubbi ma stanno comunque interrogando amici e conoscenti. La procura di Taranto ha aperto un’inchiesta e il pm Maurizio Carbone ha disposto l’autopsia, che sarà eseguita oggi. L’intenzione è verificare se l’uomo abbia effettivamente ingerito il veleno, un diserbante utilizzato in agricoltura: in macchina c’era una bottiglia da litro mezza vuota e un contenitore con la stessa sostanza di colore blu è stato trovato nel garage di casa.
Pietro Vanacore fu sottoposto a fermo tre giorni dopo l’omicidio e rimesso in libertà il 30 agosto di quell’anno. Il 26 aprile del ’91 il gip, su richiesta del pubblico ministero Pietro Catalani, archiviò l’inchiesta a carico del portiere del palazzo e il 30 gennaio del ’95 la Cassazione confermò la decisione della Corte d’Appello di non rinviarlo a giudizio con l’accusa di favoreggiamento. L’ex portinaio di via Poma viveva ormai da tempo a Monacizzo, altra frazione di Torricella, appena un centinaio di abitanti su una collinetta che guarda il mare.

Le finestre sbarrate, un’inferriata dinanzi alla porta d’ingresso: qui Pietro Vanacore insieme alla moglie faceva una vita riservata, non usciva quasi mai, giusto due passi vicino al mare, a messa la domenica, un rapido saluto quando incontrava i vicini per strada: insomma, si era scavato una trincea di silenzio. Ieri l’hanno visto per l’ultima volta alle 9,30 del mattino. E tre ore dopo è affiorato il corpo tra gli scogli, lungo questa fetta di litorale dove ora si rincorrono i nuovi dubbi.

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