Veltroni alla Lega: "A rischio il federalismo"

Il leader del Pd fa il piccolo Di Pietro: insulta Berlusconi e ricatta il Carroccio: "Sul federalismo c’è il rischio di bloccare tutto quanto". Per rianimare i Democratici in coma il segretario imita i No Cav: "Il berlusconismo è finito". Poi l'autocritica: "Tendenza al tafazzismo"

Veltroni alla Lega: "A rischio il federalismo"

Milano - Per risollevare il Pd che muore, lui non trova di meglio che travestirsi da politico tutto No Cav e girotondo. Naturalmente, spalmando chili di ipocrisia: «Noi dobbiamo distinguerci da chi la spara grossa», «Dobbiamo saperci distinguere perché capita che c’è chi la spara più di te», «Noi dobbiamo ottenere risultati e credibilità».

Virgolettati di rito, leggeri e inutili, che condiscono il ricatto alla Lega e gli insulti a Silvio Berlusconi. È il Walter Veltroni new version, che imita Tonino Di Pietro. Il Veltroni che da Milano proclama «Berlusconi c’è ma il berlusconismo è morto» e, intanto, avverte Umberto Bossi che «se pensa a un link tra immunità e federalismo, be’ si ferma tutto». Parole pesanti come pietre che Veltroni detta ai cronisti con la medesima incoscienza dipietresca alternandogli un «augurio ai novant’anni di Nelson Mandela» alla rilettura della «società aperta» secondo Italo Calvino. E, attenzione, sconfinando sempre oltre nel ridicolo, battezzando pure i libri che devono essere in bella mostra nel pantheon del partito democratico: «Gomorra» di Roberto Saviano e «Il Signore degli anelli» di John Ronald R. Tolkien. Chiaro a tutti che si sarebbe da piangere se non ci fosse da ridere.

Ma, intanto, c’è quella minaccia di stop al dialogo sul federalismo se accompagnato da una riforma della giustizia: «Lo dico alla Lega, se si vuole proseguire con il federalismo bisogna evitare commistioni indebite. Se qualcuno pensa di contestualizzare misure come la reintroduzione dell’immunità parlamentare nel federalismo, si sbaglia, perché il rischio è di bloccare tutto quanto». Minaccia dettata tutta d’un fiato e lontana mille miglia dalla strategia del Pd firmata da Massimo D’Alema e Francesco Rutelli. Dettagli per Veltroni che giocando all’imitazione del Tonino «niente dialogo», del Tonino «partito dei giudici» e, perché no, pure di quello tutto «manette e trattore», vagheggia di stoppare il dialogo.

Sorprendente, poi, la spiega di quest’illusione: «Berlusconi c’è ma il berlusconismo è finito: quest’impasto di populismo e conservatorismo è finito perché non è più in grado di dare risposte alla crisi drammatica dell’Italia. A tre mesi da suo insediamento questo governo ha perso dieci punti in poche settimane». Percentuale che il new deal veltroniano non sa dettagliare, tranne rispondere a domanda che «il governo non sta mantenendo le promesse»: «Anzi, in quattro anni ci sono stati investimenti minori per dieci miliardi di euro».

Commento ai dati sulla produzione industriale made in Istat e agli «indici dell’economia che sono tutti negativi e preoccupanti» ovvero «sinonimo di recessione, con l’Italia ultima in Europa per il Pil». Veltroni ammette «chiaramente» che «una persona seria non può attribuire queste cifre solo al governo attuale» e che, quindi, «a questo governo si può rimproverare il fatto di parlare continuamente di altro mentre invece occorre aiutare la crescita». Già, Berlusconi sarebbe «un pannicello caldo davanti a problemi che reclamano riforme radicali» e, sempre più arrampicandosi, nel vuoto politico lasciato dal «berlusconismo», Veltroni sostiene la necessità di costruire una cultura riformista, «la sola che può produrre innovazione» anche se «la tendenza al tafazzismo in noi è elevata» e pure se «nelle nostre discussioni ci sono molte banalità e invece la vera avventura deve essere ritrovare il rapporto con la vita reale». Ma il Pd, dice, è pronto comunque alla sfida: «Il giorno in cui vinceremo dovremo essere in grado di non lottizzare ma di cambiare questo Paese con uno schieramento in grado di far smettere a questo Paese di precipitare».

Ultime parole non seguite dagli applausi della platea, dai giovani militanti del Pd che pur sapendo come la politica sia l’arte del possibile sono rimasti letteralmente basiti dall’attacco veltroniano in stile Di Pietro al federalismo possibile.

Passo indietro di chi, sventolando l’elenco telefonico di Milano, – altro livre de chevet del Pd – arriva pure a sognare «un partito in cui la selezione dei gruppi dirigenti avverrà in base alla capacità di stare in mezzo alla gente e interpretarne i bisogni».

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