Vi racconto la strana amicizia fra il libertino e l’eroe cattolico

di Vittorio Sgarbi

Tra impertinenza e tenerezza. Compivo 39 anni. Vivevo all’Hotel Majestic in via Veneto. Era nata un’amicizia con Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica. Lo invitai. Accettò. Arrivò verso le 10 di sera per trovare lo «scapestrato», come si va da un amico, da un coetaneo, per puro divertimento, e certo di divertirsi. Al piano del ristorante incrocia un gruppo di democristiani, riuniti da uno dei deputati più potenti, Vittorio Sbardella, detto «lo squalo». Sono suoi colleghi di partito. C’è Cirino Pomicino, c’è Giuseppe Fioroni, c’è Claudio Vitalone, c’è anche Beniamino Andreatta. Cossiga li saluta, si intrattiene con il più fine e il più colto, il professore, che gli domanda perché è venuto al Majestic, certo non per la convocazione di Sbardella. Cossiga candidamente, e forse con malizia gli dice: «Sono venuto a trovare Sgarbi, è il suo compleanno». Andreatta lo guarda incredulo. Cossiga lo rassicura, mi descrive come un uomo gentile e lo invita. Andreatta declina: «Per carità, non ci penso neanche. E mi meraviglio di te». Andreatta pensava a festini peccaminosi, a donne discinte, ai peccati di un libertino. Cossiga con un sorriso saluta e sale nella mia stanza, la 220, una stanza disordinata, con una grande terrazza, libri e giornali ovunque, ma anche indumenti, camicie sporche, mutande. Cossiga entra e Filippo Martinez fa appena in tempo a nascondere dietro un divano le mutande. Si siede e racconta, divertitissimo, l’incontro con Andreatta, imbarazzato, preoccupato, stupito. Ecco, in 20 anni di frequentazioni più volte Francesco mi ha ricordato questo episodio, come per segnalare la differenza tra lui, cattolico ma libero, spregiudicato, curioso, e un uomo colto, intelligente, ma non privo di pregiudizi come Andreatta. Lo divertiva questa differenza, nella quale c’era la ragione della diversità, dello spirito di avventura che rendeva Cossiga così originale, pur nella certezza di principi che non erano minati dallo scetticismo, ma non gli impedivano di non farsi condizionare dal conformismo, dai pregiudizi. Quante volte l’ho visto sorridere per la faccia di Andreatta! D’altra parte la nostra amicizia aveva origini così insolite che non poteva essere la mia fama di libertino a metterla in discussione o a preoccupare Cossiga.
Era il 1990 e io in televisione avevo letto versi, di singolare originalità, di John Donne, il poeta metafisico inglese, prete anglicano, ma di formazione cattolica. Cossiga ne era rimasto colpito e, attraverso la batteria, il potente centralino del Viminale che io all’epoca non praticavo, mi cercò trovandomi in viaggio da Napoli verso Gaeta. E mi chiese: «Professore Sgarbi, ma di chi sono quei versi straordinari che ha letto ieri in televisione? Mi hanno molto colpito». Gli risposi inorgoglito e gli promisi, come feci, di mandargli al Quirinale fotocopie e documenti su John Donne. Mi ringraziò per il rinnovato piacere che la lettura gli avrebbe dato, ma non passò molto tempo, che mi ritelefonò per dirmi che aveva trovato nella sua biblioteca un libro di versi di John Donne chiosato a 18 anni e che aveva dimenticato. Era soddisfatto di questa scoperta e di questa riemersione della memoria che avrebbe sempre ricordato come sigillo della nostra amicizia. Mi invitò al Quirinale, ed essendo ormai entrato nell’epoca delle provocazioni e dei comportamenti eccentrici, nei memorabili discorsi di quei due anni, dal ’90 al ’92, non ebbi preoccupazione a portargli a colazione una bellissima ragazza bionda, Petra Scherbak, nota per essere, non senza una naturale timidezza, una sexy star. Cossiga si divertiva, gli piaceva la mia irriverenza, e intanto fortificava la propria. Ogni volta che ci incontravamo, dentro di sé, credo, pensava alla faccia di Andreatta, ma io avevo trovato in lui qualcosa di più di quello che da ragazzo mi aveva attratto in Pannella. Un autentico libertinaggio intellettuale, una spregiudicatezza, un gusto per la dissacrazione che, lui dal vertice del Quirinale, io dalla tv e poi nelle mie prime, da lui ispirate, iniziative politiche, segna la fine di un’epoca di ipocrisie. Ben prima di Caselli il nostro antagonista naturale era un uomo devoto e ovattato nelle forme come un mandarino cinese, qual era Andreotti. Scoppiò il caso Gladio, fra i due e io presi la parte di Cossiga. Lo difesi in tv e fui subito richiamato dalla direzione della Rai, salvo essere riconosciuto come un profeta perché dopo qualche settimana Craxi stabilì un asse politico inedito con il liberale Altissimo, proclamandosi promotore di un partito laico «del Presidente», liberalsocialista, contro i democristiani che erano l’obiettivo prediletto delle invettive di Cossiga e che lo odiavano cordialmente. Stava crollando la Prima Repubblica, Tangentopoli non era ancora iniziata, ma Cossiga, con il suo spirito di contraddizione, mentre apriva il conflitto con Andreotti (proprio sul caso Gladio), e anzi era l’obiettivo di una congiura Andreotti-De Mita, era lungimirante e sopra la mischia (che pure contribuiva a determinare) da nominare Andreotti senatore a vita, mettendolo al riparo dall’azione eversiva di Caselli. «O gran bontà de’ cavalieri antiqui»!
Cossiga coltivava la contraddizione consapevole di essere a cavallo di due epoche. Combatteva anche se stesso, ma evidenziava la fine di un’epoca che i giudici avrebbero abbattuto mettendo sotto accusa la Prima Repubblica. Nessuno riuscì ad incriminarlo nonostante fosse stato il primo obiettivo di un giudice facinoroso, oggi esponente Pd, Felice Casson. Cossiga avvertì che la politica stava per essere commissariata dalla magistratura. E reagì minacciando, da Presidente della Repubblica, di inviare i carabinieri al Csm. Un combattente, un eroe, che Berlusconi non capì mai fino in fondo per la consuetudine a fare di ogni problema una questione personale, mentre Cossiga aveva una visione della Storia e della crisi della politica. Nessuno aveva più coraggio di lui nel rivendicare il primato della politica. E lui vide cadere Craxi, Forlani, Andreotti, senza essere travolto. Uomo colto, sensibile al mondo anglosassone, era stato, con John Donne, buon lettore di Walt Withman che aveva scritto, per lui, versi memorabili: «Mi contraddico: benissimo, mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini».
Dopo i due anni di fuoco dell’epilogo del suo mandato presidenziale, Cossiga continuò a divertirsi, a fare politica; fu il solo, pur non avendolo votato, a guardare con rispetto a Berlusconi, lui che rivendicava di essere un democratico cattolico di sinistra. Fu incuriosito, e poi capì tutti i limiti demagogici di Di Pietro. Vide la politica degradare fino a sparire. Ebbe rispetto e pietà per Craxi, senza rinnegarlo come avevano fatto molti suoi compagni di partito. Continuò a evidenziare contraddizioni. Intervenne nei momenti difficili, evitando di farsi riconoscere come un senatore a vita schierato.

Ci si continuò a vedere per affetto e divertimento. Alla fine, credo, Cossiga si vedeva come il Principe di Lampedusa don Fabrizio Salina, ballare con la fidanzata del nipote, Angelica, l’ultimo valzer mentre tutto il mondo intorno a lui crollava.

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