Milano «As Salam aleikum, aleikum salam». Via Padova, Milano, Italia, esterno giorno. Il giorno dopo un pomeriggio e una notte di ordinaria follia. Ahmed, il giovane egiziano, inseguito e accoltellato a morte da un gruppo di sudamericani davanti all’Hela Kebab. La reazione immediata violentissima e incontrollabile di forsennati dalle diverse etnie ma carichi dello stesso odio. Sangue, pestaggi, auto rovesciate e semidistrutte, vetrine di negozi frantumate a colpi di spranga. Che ora sembrano scheletri surreali. «As Salam aleikum, aleikum salam». Il saluto tradizionale suggella l’incontro fra un giovane, che sta uscendo dal minuscolo fast food arabo, e il vecchio nordafricano che, con la cicca che gli pende dalla labbra e lo sguardo sembra osservare tutto e niente.
L’uomo presidia quel metro quadrato di marciapiede dove i segni dell’agguato restano evidenti. Anche qui, in questa terra di nessuno, osservata con preoccupazione da un Dio che ha nomi differenti a ogni metro, dimenticata dagli uomini del potere che messi all’angolo dalle proteste dei pochi abitanti italiani, farisaicamente solo oggi si indignano e promettono, anche qui, dicevamo, il rituale della pietà ha voluto che una mano anonima lasciasse un mazzo di fiori. La palazzina, al civico 80, che ospita l’Hela Kebab è lo specchio di una dignità in caduta libera. Sul citofono si affastellano nomi e cognomi mescolati dalla bizzarra anagrafe dei destini: Pinedo, Nigisty, Zhao Dong , Abdellafef, Montecilto, all’interno si accumulano sacchi della spazzatura, carcasse di biciclette e moto. Gli sbrindellati balconi sono dormitori a cielo aperto protetti con lamiere dagli sguardi indiscreti. Due cani al guinzaglio, due pizze in mano, la signora Lina accelera il passo verso casa, «verso la mia trincea» come ci dice, riuscendo persino a vestire la bocca di un sorriso. «Abito qui accanto, all’82. Siamo rimasti in tre italiani: io, il Perini e l’Angela. Le sto portando la pizza, l’ho presa là, vede dove c’è scritto All’Aurora? Anni fa c’erano dei terùn, adesso sono tutti cinesi. Ma i cinesi almeno si fanno gli affari loro. Gli altri no. Coi sudamericani e con tutti questi arabi e africani non si può vivere. Alla sera, dopo le otto, non esce più nessuno. Ci tappiamo in casa e sentiamo loro che scorrazzano ubriachi e litigano. Ieri, come ho capito che era successo qualcosa di grave ho detto ai miei cani: niente da fare, la pipì la fate qui, non si esce. Niente trotter». Il trotter è il polmone verde della zona. È lì che ieri un gruppo di genitori, italiani e stranieri dei ragazzi, che frequentano la Scuola del Sole si sono radunati. La scuola del Sole con annessa la sua vera fattoria, nata nel 1925 per far conoscere ai bambini di città gli animali, è stata sempre un esempio singolare di didattica e, in tempi recenti è anche diventato l’unico esperimento d’integrazione di via Padova. «La scuola - dice Sonaya Abdel Kader, palestinese mamma di due bambini - è un luogo di pacifica convivenza: Milano è di tutti. Noi siamo vicini alla famiglia del ragazzo morto ma nessuno, né italiano né straniero, deve approfittare di questo momento per seminare caos, dobbiamo impegnarci tutti a vivere in pace».
Polizia e carabinieri piazzati nei punti strategici, la via Padova del day after è un alternarsi di saracinesche abbassate e di negozi distrutti. Come il supermercato latinoamericano poco distante dal luogo dell’agguato. Curioso che, nel gorgo del degrado, l’amministrazione civica abbia disegnato anche un paio di avveniristiche rotatorie e una pista ciclabile che non riesce a imporsi per quello che dovrebbe essere. E stridente il contrasto di un palazzo moderno, dalla facciata immacolata e gli appartamenti tutti ancora inesorabilmente sfitti, con tutti gli altri edifici segnati dal tempo, sfregiati dall’incuria. Che somigliano ad alveari, dove le mille parabole che spuntano dai balconi sono il segno di un mondo disperato che sogna di essere nel proprio mondo. Una faccia rassicurante entra con me in un vecchio bar, dal bancone in mogano, che rivela antichi, milanesissimi, splendori. Solo che oggi quel bar si chiama Conca d’oro e, dietro il bancone in mogano, non c’è il barista bauscia di un tempo, ma un impacciato ragazzino cinese. Un incontro casuale quello davanti a un caffè con Matteo Di Pietro, tecnico informatico. «Abito giusto qui dietro, in via Leoncavallo. Ieri sera, rientrando a casa, stavo per lasciare l’auto nel box di via Conegliano. Non sapevo nulla di quanto era accaduto né del far west che si stava scatenando. Per fortuna un ragazzo in moto si è avvicinato e mi ha gridato: non andare avanti stanno distruggendo tutto quello che incontrano. Sono dei pazzi, vai via. Me la sono vista brutta».
«Orgogliosi di essere napoletani», si legge sui cartelli che vegliano su sfogliatine e babà, nella affollatissima pasticceria di Giuseppe Rispo. Ma tutt’intorno i colori e le scritte delle insegne dipingono una realtà ben diversa: Cairo phone, Eurasia, Kalid Money trasfert, Karbush col suo kebab in promozione a 2,50 euro, Machu Picchu restorante, Shikamama, che reclamizza panini «anche» italiani. E macellerie islamiche. Tranne una. E pure aperta. Agguerrito, mentre affetta il suo manzo, il Paolino al numero 70 parla senza paura. E resiste impavido: «Sono qui da 55 anni. Ho conosciuto i marsigliesi io e quelli della rapina di via Osoppo che qui avevano i loro covi. Cosa vuoi che abbia paura io! Fossimo in Germania questa gente qui non butterebbe per terra nemmeno un mozzicone, te lo dico io».
Pochi metri più in là il segno di un’altra resa. La «cler» definitivamente abbassata dell’unico barbiere italiano di via Padova che ha appeso il cartello di cessata attività. Quindi a far compagnia al macellaio Giampaolo rimangono Franchi col suo negozio di elettronica, la Casa del sapone, che ha trovato nuovi clienti nelle imprese di pulizia messe in piedi dagli extracomunitari e la pasticceria dell’orgoglio napoletano.
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