Il visionario Miró, eterno ragazzo dell’arte

Catalano di origine agli esordi fu apprezzato da Picasso

Elena Pontiggia

Una suggestiva mostra dedicata a Miró, e curata da Luigi Cavallo, è aperta fino al 22 aprile alla Galleria Il Castello (via Brera 16). Sono esposti un gruppo di acquerelli, dipinti e gouaches che vanno dalla metà degli anni ’40 alla fine degli anni ’70, integrati da una serie di grafiche che partono dagli anni ’50 e giungono fino agli ultimi esiti dell’artista.
Catalano d’origine, Juan Miró (1893-1983) è stato uno dei maestri del surrealismo. Giunto a Parigi nel 1919, dalla nativa Montroig, un paesino non lontano da Barcellona, conosce subito Picasso, che gli dimostra una profonda stima. Dipinge in questi anni opere di una descrittività minuziosa e un po’ fiabesca, che riecheggiano l’antica arte catalana, declinandola in un linearismo ilare e lieve. «Che gioia capire un piccolo filo d’erba in un paesaggio - scrive in una lettera a un amico -. Perché tutti lo trascurano? Un filo d’erba non è meno grazioso di un albero o di una montagna».
Intorno al 1924-25 Mirò diventa, come abbiamo detto, uno dei protagonisti del movimento bretoniano. Il suo è un surrealismo astratto, formicolante di segni, ronzante di piccole forme e di arabeschi: una specie di araldica fantastica, carica di una strana grazia impertinente. È questa la sua stagione più felice. A partire dal 1935, poi, i suoi segni si dilatano progressivamente, fino a diventare giganteschi. Sono segni che esprimono un lungo incubo, e insieme un ostinato sogno di salvezza. Perché, come lui stesso amava dire, «l’umanità può morire, ma non tutta. Una parte sopravviverà e fuggirà tra le stelle».
Miró, insomma, vuole rappresentare l’io, ma anche l’universo; vuole evocare l’istinto e la violenza, ma anche l’anima e le stelle. Abbiamo detto stelle? La parola va usata tra virgolette, perché siamo di fronte a un artista così visionario che i suoi segni non sono facili da decifrare. Ad aiutarci ci soccorre un poeta come Raffaele Carrieri, che ha dedicato a Miró alcune pagine altrettanto visionarie, e che Cavallo opportunamente ricorda nel catalogo della mostra: «Le stelle di Miró possono essere con la stessa facilità e fecondità gamberetti, grilli, girini, giaggioli, patelle, lucciole e rocchetti».
Quello che la mostra mette bene in evidenza, comunque, è la vitalità e, per così dire, la giovinezza dei segni dell’artista. Che non attraversa mai una fase di senilità, anche quando le sue opere sono dipinte a ottant’anni, e oltre.

Ed è ancora Carrieri a descrivere bene questa eterna condizione d’infanzia: «Mirò - annota nel suo Brogliaccio - ha settantatré anni o settantatré mesi. Settantatré mesi sono poco più di sei anni. Le sue bacchette di carbone, i suoi inchiostri, le sue terre blu verdi azzurre rosse e color canarino hanno la stessa età. E la stessa età le sue macchie nere sui muri».

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