Vogliamo un NOBEL politicamente scorretto

Stoccolma deve sì premiare il più «bravo». Ma anche rischiare e avere il coraggio di consacrare un outsider

I pregi principali del premio Nobel per la Letteratura sono due. Il primo è quello di permettere a chi lo vince di guadagnare un bel po’ di soldi, e questa non è cosa da poco: scrivere è fare un prodotto, e si produce qualcosa per poi venderlo. La sola incognita sta in quel «poi», che può anche variare, nel senso che non tutte le cose vengono prodotte per essere vendute subito. Il Barolo non è il Lambrusco. E il Nobel dovrebbe essere più per il Barolo che per il Lambrusco - ma forse è chiedere troppo.
Il secondo pregio, socialmente più importante, è quello di far discutere. Che l’assegnazione di un premio Nobel crei molte scontentezze, è nella natura delle cose, e meno male che è così. Il punto però sta nella qualità, nel livello delle scontentezze. Se il livello è alto, allora il non vincere il Nobel può essere più importante che vincerlo. Se viceversa è basso, anche il non vincerlo perde prezzo, i meritevoli scornati diventano troppo numerosi.
In tal senso, le alternative per una giuria che non può (nessuna giuria lo potrebbe, ormai) essere all’altezza del prestigio del premio sono due: o presentare un lotto di candidati ristretto, possibilmente due, concentrando tutte le attenzioni su questo lotto, di modo che, insieme col Grande vincitore, possa essere proclamato anche un Grande sconfitto; oppure proclamare vincitore un outsider - come in effetti è stato fatto spesso, ultimamente. In questo secondo caso la giuria ha un solo colpo in canna, e deve fare centro: proclamare vincitore un outsider, magari poco premiato dal mercato, significa assumersi la responsabilità della sua consacrazione. Purtroppo non tutti i vincitori scelti con questo criterio si sono dimostrati degni di un simile onore, e così la loro vittoria (soldi a parte) si è afflosciata su se stessa. Quando non può seguire una di queste due regole, il Nobel perde in protagonismo, diventa un modo come un altro di far piovere sul bagnato. Il Nobel deve essere, insomma, in grado di rivoltare la frittata, e se non ci riesce non è una festa per la letteratura.
Scorrendo i nomi dei vincitori nel corso degli oltre cent’anni della sua storia, il Nobel presenta un andamento alterno tra concessioni di varia natura (economica ma anche politica) e prese di posizione coraggiose. Ha conosciuto momenti bui e momenti esaltanti, e anche questo è nell’ordine delle cose. Ha passato momenti di obnubilamento politico, con riconoscimenti del tutto privi di senso (pensiamo a Dario Fo, di cui non resterà nella nostra memoria nessuna parola importante), ma ci sono stati anche scatti di vero coraggio (ultimo nel 2001, a Naipaul).
Scorrendo i candidati di quest’anno troviamo una filza di nomi eccellenti, tutti buoni e tutti bravi. Come dubitare di Philip Roth? Di Don DeLillo? Di Cees Nooteboom? Di Claudio Magris? Di Amos Oz? Di Milan Kundera? Di Yves Bonnefoy? Di Mario Vargas Llosa (il mio preferito tra questi)? Si fa anche il nome della noiosissima Assia Djebar.
Se però possiamo esprimere una perplessità, è questa: tutti i nomi che abbiamo letto sulle agenzie di stampa di questi giorni, salvo un paio di eccezioni, appartengono già all’Olimpo della letteratura, a quella società di personaggi tutti più o meno d’accordo tra loro, tutti illuminati, tutti pieni di stima l’uno per l’altro, sempre in dialogo tra loro, che ricorda tanto il canto IV dell’Inferno, quello dedicato al Limbo - che è, ad ogni buon conto, un girone infernale, un girone di uomini esclusi dalla Grazia (tra parentesi, la parola «Grazia» mi ricorda un racconto di Joyce, autore che non vinse il Nobel). In altre parole: sono tutti belli buoni e bravi, vedrete che gli sconfitti si complimenteranno con il vincitore. Ma io ho il terrore di un mondo, e soprattutto di un mondo letterario, fatto di belli buoni e bravi, ossia di «anime bell’e fatte», come le chiama l’immenso Charles Péguy (che non vinse il Nobel). Non dico che i buoni e bravi non siano necessari, ma solo se oltre le guardie ci sono anche i ladri. Se l’arte è questione di Grazia, allora anche i brutti e i cattivi tornano in corsa.
Come scriveva malinconicamente Giosue Carducci: «E sassi in specie non ne tiro più». Ben sapendo che un poeta divenuto incapace di tirare sassi è completamente inutile.
Avevo messo mano a questo articolo col proposito di chiedere alla giuria del Nobel di segnalarci qualche monello, qualche cattivo soggetto, qualche personaggio che ci permetta di non limitare la nostra voglia di «politicamente scorretto» alla visione, spesso deprimente, di South Park su Mtv. In realtà il problema è molto più grosso. Fatta salva la mia simpatia per i francesi, per il loro antiglobalismo strutturale e per la loro commovente mancanza di umorismo, per cui un Nobel francese non sarebbe una cattiva idea - a patto di sceglierlo giusto, e Le Clézio mi pare una buona soluzione -, quello che ci manca da tanto tempo è l’indicazione di nomi e figure che siano veri sassi lanciati sul mondo: non solo su una parte, chiamiamola pure la parte sbagliata, del mondo, bensì su tutto il mondo. Qualche volta è successo - pensiamo a Solzenitsin.
Tutti noi abbiamo un grandissimo bisogno, oggi più che mai, di sentire scricchiolare le nostre sicurezze. Se il crollo della finanza è un disastro, sarebbe ancora più disastroso se le nostre teste rimanessero tali e quali. Qui urge una scossa per tutti, e la letteratura, per quanto legata al mercato, non può togliersi di dosso questa vocazione. Ora, i nomi dei candidati forniti dalle agenzie di stampa sono nomi eccellenti, nomi di gente ottima ma comunque già sistemata nel suo Olimpo, gente che non dà né ha intenzione di dare scosse, tirare sassi, insomma fare del male a qualcuno.
E poi si avverte fin troppo, dietro le nomination e le proclamazioni, la presenza di questa o quella lobby.

Una domanda che mi insegue da anni: perché da decenni nessun cattolico? Forse perché le lobbies cattoliche sono troppo deboli? Dario Fo fu preferito a Mario Luzi, Quasimodo a Ungaretti. Adesso, per dirne una, avete l’australiano Les Murray, cattolico e grande poeta. Non sarebbe tempo di un’inversione di rotta?

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