È nell’ordine delle cose che un personaggio storico, protagonista di una stagione di straordinaria lacerazione degli animi e dei sentimenti di un Paese, lasci di sé una memoria contrastata e, al fondo, divisiva. Soprattutto quando la sua liquidazione diventa, come è stato nel caso dell’Italia, l’evento-mito che viene assunto a fondamento legittimante del nuovo ordine. Meno normale è che, accanto alle controversie relative al giudizio etico-politico sulla figura del personaggio, restino controverse molte pagine, anche cruciali, della sua vita e della sua figura di uomo e di politico. A distanza ormai di 65 anni dalla sua fine siamo ancora qui a interrogarci addirittura su chi (e, anche, come e quando) eseguì la sentenza di morte su Mussolini. L’enigma, il sospetto, la rivelazione-scoop sono ingredienti stabili di ogni vicenda biografica che assuma agli occhi dei posteri il sapore del dramma il cui dispiegarsi e, soprattutto il cui finale, non sono mai stati del tutto accettati nei termini conosciuti.
La domanda di una diversa «verità» ha alimentato nel tempo a carico di Mussolini una ricca letteratura, fatta di testimonianze, di memoriali, di diari - veri, presunti o falsi che siano - che hanno accompagnato e condizionato la memoria che gli italiani hanno via via elaborato del loro dittatore. Si capisce come un editore (Leo Longanesi) ansioso nell’immediato dopoguerra di rilanciare la sua attività, e un giornalista (Indro Montanelli) in servizio permanente effettivo sul fronte della lotta alla retorica del politicamente corretto, si siano gettati a capo fitto sull’impresa di rivelare il duce segreto e inedito, non appena vennero a conoscenza pochi mesi dopo il 25 aprile che un intimo di Mussolini era in grado di far conoscere agli italiani gli aspetti più reconditi della vita del dittatore. Si trattava di Quinto Navarra, che aveva servito Mussolini per l’intero Ventennio, dal 1922 al 1945. Nella sua qualità di fatto di capo dei commessi, era stato lui a smistare le frequentazioni di Palazzo Venezia in tutti quegli anni: si trattasse di potenti, ministri o gerarchi, come di semplici questuanti e soprattutto di quella pletora di amanti fuggevoli di cui era popolata la vita del dittatore.
I Nostri Due faticarono non poco a convincere il cameriere del Duce a comunicare loro le sue confidenze. Era forte la ritrosia del fedele servitore a scoprire il lato meno eroico e gladiatorio dell’uomo che aveva dato in pasto ai suoi sudditi l’immagine artefatta dell’intemerato condottiero fondatore dell’Impero. Era anche viva in lui la paura di esporsi in pubblico in tempi in cui non si era conclusa la caccia al fascista. Ma alla fine l’impresa andò in porto e Montanelli potè fornire veste letteraria e forma compiuta al racconto, plausibilmente impressionistico e lacunoso, del «cameriere del Duce». Il libro, col titolo Memorie del cameriere di Mussolini e a firma Navarra, fu prontamente nelle librerie: meno di un anno dopo la liquidazione del fascismo.
Le comprensibili aspettative di un sicuro colpo editoriale furono presto deluse. Montanelli se ne fece una ragione addebitando «il mezzo fiasco» all’eccessiva tempestività della loro iniziativa. «Un editore - commenterà amareggiato nel 1983 nella prefazione alla seconda edizione del volume - doveva, sì, precedere i tempi, ma non di decenni». I tempi, a ridosso della fine della guerra, non erano evidentemente maturi. Gli italiani avevano troppa fretta di lasciarsi alle spalle lutti, dolori e sacrifici patiti nei cinque lunghi anni precedenti, ancor più desideravano stendere un pietoso velo sui loro ancor freschi, compromettenti amori col fascismo perché potessero sopportare di tenere aperta una ferita tanto bruciante.
Non è che animasse quelle confidenze in diretta una qualsiasi vena revisionista, offensiva del dominante spirito antifascista. Ma la semplice proposta di un Duce in qualche modo «dal volto umano», colto dal vivo con i suoi vizi, le sue debolezze, le sue quotidiane abitudini di «uomo qualunque», insomma di «dittatore in pantofole», rappresentava comunque una forma di demistificazione dell’immagine del Tiranno Guerrafondaio sulle cui spalle i suoi concittadini scaricavano volentieri l’intera responsabilità della catastrofe vissuta.
Per quanto sapientemente giocata in punta di penna, a dire il vero, non era mancata nella conduzione del racconto da parte di Montanelli qualche annotazione, apparentemente ai margini, e invece assai ben calibrata, al fine ora di ripulire la faccia del dittatore dal suo solito piglio truce, ora di far risaltare un suo tratto meno arcigno e sinistro. Così, ad esempio, Navarra ci restituisce un Mussolini «terribilmente depresso durante il delitto Matteotti», il capo del governo supposto mandante dell’uccisione del leader socialista che inoltre riceve «la dolorante vedova» a Palazzo Chigi e la commiata alla fine di un lungo colloquio sorreggendole il braccio, «chinato con muto dolore verso di lei». In un altro passo Navarra ricorda l’occasione in cui il capo del fascismo lo aveva invitato a leggere una biografia di Stalin per sincerarsi chi fosse davvero tra lui e il segretario del Pcus il vero dittatore. «Se gli italiani provassero un mese di governo di Stalin - avrebbe sbottato Mussolini - farebbero un vitalizio con Mussolini». E ancora: il devoto servitore accorre nel ’43 sulle sponde del lago di Garda, nella «capitale di un granducato da operette», e ci offre un’immagine patetica, quasi commovente di colui che era stato il Duce e che ora accetta («lui che non aveva ricevuto un ordine da alcuno in vent’anni») di trasmettere ai suoi ministri «gli ordini ricevuti dal capitano tedesco».
Nel complesso, il Mussolini che emerge dalle confidenze di Navarra è il figlio del popolo che scala le vette del Potere e che, da ultimo, finisce travolto da un mondo più grande di lui, quasi ne fosse vittima e non responsabile. Un figlio del popolo con gusti, vezzi, abitudini, vizi e ambizioni di un uomo al fondo generoso anche nei suoi errori. Evidentemente, era l’unico Duce che poteva uscire dalla penna di chi fedelmente gli era stato vicino per una vita, riuscendo a stringere con lui un rapporto di tale confidenza da poter essere trattato come un «amico» da chi era stato l’uomo più potente d’Italia. Ma anche l’unico Duce che stava a cuore a Montanelli restituire agli italiani per condurre, anche se in sordina, quella stessa battaglia anti-antifascista che stava in quegli stessi anni sviluppando il suo amico Giovannino Guareschi sul Candido.
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