"Vorrei conoscere Berlusconi. Vizi? Cibo, amore e cotton fioc"

Il creatore di Eataly, icona della sinistra, e il rimpianto di non aver mai incontrato il Cavaliere. "A tavola odio chi ordina sempre il solito"

"Vorrei conoscere Berlusconi. Vizi? Cibo, amore e cotton fioc"

Questa intervista è nata da una sigaretta. Da una sigaretta fumata in un bugigattolo di Eataly Smeraldo a Milano, chiaramente fuorilegge. Io e Oscar Farinetti, che di Eataly è il fondatore. Chiacchiere alcoliche e lui che dice: «Ci sono tre godimenti nella vita: il sesso, il cibo e i cotton fioc». Mesi dopo ne riparliamo.

Farinetti, davvero il cotton fioc è una delle gioie della vita?

«Godo come un mandrillo quando, dopo lavati i denti, sento questo istinto fortissimo a prendere il cotton fioc, metterlo leggermente sotto l'acqua bollente e infilarlo nelle orecchie. Ma tu non hai idea, sento un godimento dalla testa ai piedi».

Iniziamo bene. Altre gioie inconsuete?

«Quella masochistica di rinviare di dieci minuti in dieci minuti la prossima sigaretta, riesco a far passare delle ore in questa attesa orgasmica e alla fine quella sigaretta è un godimento supremo».

Cose più normali?

«Faccio spesso l'elenco degli orgasmi e degli antiorgasmi. Tra questi ultimi ci sono le chiavi delle porte, le stringhe delle scarpe, gli appendini, sai quelli dell'hotel che non c'è il gancio e non ci riesci mai? Il dentifricio quando finisce. Per i piaceri, Cristo ha fatto in modo che ci facessero godere le due cose che ci assicurano la continuazione della specie, mangiare e fare l'amore».

Chi è Farinetti oggi, a quasi settant'anni?

«Una persona normalissima, che ha una predisposizione naturale a osservare il presente, ad avere la memoria del passato e a impegnarsi sul futuro. Ho avuto la fortuna pazzesca di essere nato figlio di un partigiano della Matteotti, di essere nato nel Nord del mondo, di aver fatto il liceo classico Govone di Alba, di aver trovato dei collaboratori fantastici, una donna strepitosa con la quale vivo da 45 anni, tre figli pazzeschi. E devo dedicare un po' di tempo a farmela perdonare, questa fottuta fortuna che ho avuto, sbattendomi un po'...».

Dice di esser nato povero. Ma suo padre non era un imprenditore?

«Mio padre era più bravo di me, ma meno fortunato. Aveva messo su un pastificio, non ci chiamiamo Farinetti per caso. Ma i debiti sono la mia madeleine. Mio padre e mia madre lavoravano come dei pazzi. Mi ricordo bene la nostra cena, caffellatte col pane del giorno prima. E basta. Io solo da grande ho scoperto che esisteva il prosciutto crudo, che esisteva l'acqua minerale vera e non quella gasata con certe bustine che produceva la Ferrero».

Poveri in canna, quindi.

«Sì, ma da imprenditori. Mio padre non è mai fallito, si è sempre fatto un mazzo mostruoso. E quando arrivai a lavorare con lui nel 1978, nel supermercato che si chiamava Unieuro Market, che metteva insieme food e non food, erano pieni di debiti. All'inizio degli anni Ottanta gli interessi andarono dal 3-4 per cento al 23-24 per cento in pochi mesi e noi i mutui ce l'avevamo indicizzati e non a tasso fisso, porca di una miseriaccia. Furono sette-otto anni in cui non andai mai in vacanza».

Come ne usciste?

«Ci inventammo una formula di marketing innovativo per fare liquidità. Per dire, un giorno ero con mia moglie incinta alle giostre, a far sentire a mio figlio in pancia i rumori del luna park, e vidi questo tipo che faceva pescare i pesciolini rossi».

Ora, i pesciolini...

«Lasci fare. Ho montato una piscina di quelle gonfiabili larga tre metri nel reparto da giardino, ho invitato tutti i bambini del territorio a cercare di pescare i pesci, chi ci riusciva se lo teneva e io poi vendevo ai genitori il mangime e la boccia. Fu un successo pazzesco, importai forse centomila pesci dalla Cina, arrivavano in scatola. Era un'epoca in cui le idee semplici funzionavano e facemmo un sacco di soldi».

Da quando è «non-povero»?

«Nel 1989 abbiamo venduto per la prima volta Unieuro Market per sei miliardi di lire, la mia quota era di un miliardo. Ero miliardario».

Però teneste il marchio...

«Mio padre mi avrebbe ucciso. E buttai tutti quei soldi sugli elettrodomestici. Era nato Unieuro».

Perché gli elettrodomestici?

«Avevo capito che non ci saremmo per tutta la vita intorcigliati attorno a un filo del telefono, che i televisori spessi sarebbero diventati sottili. Giravo il mondo, guardavo».

E perché poi ha mollato?

«Ho capito che tutto quello che vendevo, videocamere, fotocamere, impianti stereo, organizer, telefoni, presto sarebbero stati concentrati in un solo apparecchio. E mi sono detto: scappa!».

Da dove uscì fuori Eataly?

«Dall'analisi. Le due cose fondamentali sono l'analisi e i maestri. Considerai che il Paese che ha la più grande biodiversità alimentare, il cibo più richiesto al mondo esportava la metà della Francia, meno di Olanda e Germania. Mi chiesi perché. E mi risposi che l'Italia non aveva un retail proprio».

Però aprì a Torino...

«Mio padre mi ha insegnato che se non sei bravo a fare le cose a casa tua è inutile che te ne vai fuori».

Un posto di lusso.

«No, a me il lusso fa cagare. Un posto di livello alto per appassionati, quelli che preferiscono spendere per il cibo che per il vestire, che sanno che il cibo è la prima medicina».

Sbagli? Fico, ad esempio, non è mai stato fichissimo...

«Le cose che ho sbagliato sono più di quelle che ho realizzato, ma preferisco avere dieci idee al giorno di cui sei sbagliate che tre giuste. È grazie agli errori che fai le cose giuste. Ha ragione su Fico, è stato un'altra cosa da come lo avevo immaginato, ma ora la mia famiglia se lo è ripreso e a fine anno ci sarà la Fico Revolution».

Altri errori?

«Il primo negozio Unieuro a Fossano era un disastro, avevo sbagliato tutto. E con Eataly dopo Torino potevo aprire il secondo negozio a New York o a Tokyo. Mi ero montato la testa, mi sentivo invincibile, pensavo fosse giusto fare la cosa più difficile e aprii in Giappone. Ma sbagliai l'analisi. I giapponesi non mangiano italiano spesso, e poi mangiano poco. Fu un buco orribile, rischiai di andare a gambe all'aria. Per fortuna poi arrivò il successo di New York».

Prima ha parlato di maestri. Quali sono stati i suoi?

«Mio padre innanzitutto che era un uomo del futuro, pensa uno che chiama un negozio Unieuro nel 1967. Poi don Valentino, Tonino Guerra, Carlo Petrini. E Leonardo».

Da Vinci?

«Lui. Lo studio da anni. Era cintura nera di futuro. A settembre esce il mio nuovo libro, Dieci mosse per affrontare il futuro, un mio dialogo con Leonardo».

Complimenti per l'ego.

«Che c'entra, io nasco naturalmente egotico, ma so frenarlo, lo riconosco. A me stanno sul cazzo gli egotici puri, che non si mettono in discussione. Io parlo pochissimo di me. Solo i vecchi dicono sempre: io».

Mica è giovane, lei...

«Io adesso ho 68 anni, ho dato il meglio di me fino ai 65. Se vivo quanto mio padre mi restano 19 anni».

E come pensa di trascorrerli?

«Voglio studiare. Io sono un lettore inguaribile ma credo di aver letto lo 0,001 per cento dei libri del mondo. Dei 58 siti italiani patrimonio mondiali dell'Unesco, ho fatto il conto l'altro giorno, ne ho visti 46. Studierò e con la mia naturale predisposizione alla semplicità racconterò alle persone meno fortunate di me. Il futuro è provarci, Leonardo diceva Godo in sovrappiù a provarci che a farcela, infatti ha lasciato una grande quantità di incompiuti, vada a guardarsi l'Adorazione dei magi, è una figata e non è finito per un quarto».

Qualcuno l'ha definito una via di mezzo tra Berlusconi e Olivetti.

«Bella questa, non la sapevo. Sa che non mi dispiace?».

Che cosa pensa del Cavaliere?

«Non ho mai amato Berlusconi, per me era il male assoluto, ma ora ho un rimpianto: non averlo incontrato, mi girano le balle. E sì che Sgarbi me lo ha proposto mille volte. Ora ho rivisto il mio giudizio su di lui. E sa perché? A parte i temi della magistratura, su cui alla fine aveva ragione, perché tutte le persone che ho conosciuto che hanno lavorato con lui, da Cairo a Confalonieri, ne parlano bene e questo vuol dire che si è comportato bene».

Fa ancora in tempo a conoscerlo.

«Ecco, speriamo che legga questa intervista e mi inviti».

Lei è stato una icona della sinistra, anche se non so se questa definizione le farà piacere...

«Ma no, mi piace da matti!».

Ecco, qual è il problema della sinistra italiana?

«I leader della sinistra che non sono stati dei fenomeni, diciamo così. Io credo nei leader, sono più per Voltaire che per Rousseau, penso che i dittatori siano il miglior modo per gestire il popolo, certo leader buoni, per bene e intelligenti. Berlinguer raggiunse il 37 per cento con un marchio orribile da vendere, il Partito comunista, ma lui era un genio. La destra ha avuto negli ultimi 25 anni il Berlusconi, che potrà avere tutti i difetti del mondo ma non gli manca certo il carisma. E anche questa ragazza qui...».

Giorgia Meloni?

«Chiaramente non mi può essere simpatica, arriva da tradizioni diverse dalle mie ma bisogna ammettere che è in gamba. E se mi chiamasse per darle una mano sul made in Italy, su cui qualcosa so, pensa mica che la mando a cagare? No, vado ad aiutarla anche se io non c'entro nulla con lei. Sono stanco di quelli che parlano solo male degli altri e poi non fanno nulla».

E l'altra ragazza, la Schlein?

«Carina, si sente che è perbene e ha voglia di sbattersi. Mi fa anche tenerezza, colgo la sua difficoltà in un partito che soffre del problema delle rendite di posizione, c'è gente che sta lì dalla prima repubblica».

I Cinque Stelle.

«Che disastro, hanno approfittato dell'idea tutta italiana di votare per interesse personale, che è sempre l'anticamera della tragedia».

È ancora amico di Renzi?

«Mica cambio le amicizie perché uno va male. Gli voglio ancora tanto bene, e gli dico quando sbaglia. Lui il 4 dicembre 2016 perse quel referendum, che io trovavo pure giusto, ma lui aveva contro tutti, da Casapound all'Anpi, e quando hai tutti contro perdi, successe anche a Napoleone a Waterloo. Pensi se lui il 5 dicembre avesse lasciato la politica. Dopo due o tre anni sarebbero andati tutti a supplicarlo di tornare».

Renzi sbagliò anche ad andarsene dal Pd?

«Certo, era convinto di prendere un sacco di voti e non ci è riuscito. E questo connubio con l'altro, Calenda, non ha funzionato, due galli in un pollaio non vanno, soprattutto se attorno hanno quattro galline spennate».

Ha detto che l'Italia è il Paese più triste del mondo.

«Mica l'ho detto io, fu una indagine Gallup del 2019, arrivammo ultimi tra 130 Paesi del mondo per fiducia e ottimismo. Ed è incredibile che il popolo che ha avuto il culo di nascere nel posto più bello del mondo, paesaggi, arte, cibo, vino, vestiti, mobili, sia il più triste del mondo. Al terzo posto c'era il Bangladesh».

Il Bangladesh?

«Sa che sono andato a studiarmelo. È più bello di noi? No. È più ricco? Certo che no. Si mangia meglio? Non sono nemmeno andato a guardare. Ha politici migliori dei nostri? Per quanto noi non amiamo i nostri politici lì non hanno mica Gandhi al potere. E allora: hanno la pancia più vuota della nostra, sono come negli anni Sessanta da noi, quando c'era fiducia, senso del decoro, della vergogna, impegno, rispetto. Era bellissimo e l'abbiamo persa quella roba là».

C'è un problema italiano...

«Sa perché? Siamo il 3° Paese dell'Ue per Pil e il 23° per tasso di lettura. Ciò spiega tutto. Chi non legge non ce la può fare. Leggere serve a farsi venire dubbi. Chi non lo fa si confronta solo con proprio pensiero e pensa di avere sempre ragione. Qual è l'ordinazione più frequente nei ristoranti italiani? Il solito! Ma come cazzo si fa a chiedere il solito nel Paese più biodiverso del mondo? E ce ne vantiamo, ci vantiamo d'esser abitudinari».

Lei è anche poeta.

«Sì, ho scritto un libro che ha avuto anche un certo successo, si chiamava Quasi. Vuole sentire una mia poesia? Dura otto secondi».

Vada.

«L'egoismo è come l'odor della merda/ nella tua ci stai pure bene/in quella degli altri ci stai di merda».

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