Walser e Sebald, due solitari a braccetto

Passeggiare è una maniera di scappare: lentamente, senza dare nell’occhio. Di dileguarsi all’aria aperta, en plein soleil, senza preoccuparsi di cancellare le tracce. Anche scrivere è un modo per nascondersi: di rendersi tanto più invisibili quanto più vistosa è la scia di parole che ci si lascia dietro.
Robert Walser scriveva come si va a passeggio. Negli anni in cui era ancora a piede libero e stringeva la penna in mano come l’ago infallibile di una bussola - negli anni precedenti il fatidico 1933 in cui precipitò nella follia, la penna gli cadde una volta per tutte dalle mani e alla sua sfrenata libertà pose fine il ricovero nella clinica psichiatrica di Herisau, dove morì nel 1956 - andava a spasso nel Paese delle Matite. Tutte le metafore ritrovano il loro senso letterale nella sua Terra del Lapis: il Bleistiftgebiet come i suoi interpreti hanno definito la messe dei microgrammi, biglietti, foglietti compilati dallo scrittore di Bienne a partire dagli anni Venti e riempiti fino al limite dei margini da una scrittura sempre più minuta. Pagine e pagine di prosa e poesia, drammi e narrazioni. Fogli sparsi come passi persi. Disseminati come un’esca per invitare il lettore dotato di pazienza e spirito di avventura.
Quel lettore è Winfried Georg Sebald (1938-2001), che dello svizzero scrittore erratico incrociò le tracce per caso. E ne fu immediatamente adescato: sedotto dalla sua singolarissima virtù, «la peculiarità di dissolversi alla lettura». Anche alla lettura degli scritti editi e definitivamente stampati: ingabbiati nella rilegatura, imprigionati in copertina e messi alle strette nella catena della distribuzione. I romanzi cioè: I fratelli Tanner, Jakob von Gunten, L’assistente, Il brigante. E i racconti, uno su tutti da ricordare: La passeggiata.
Sebald si avvide subito che le orme di quello spirito inquieto e randagio corrispondevano alle sue misure di scrittore esule e vagabondo. La coincidenza era più profonda dell’esteriore somiglianza biografica tra le peripezie dello svizzero - che era stato flâneur a Berlino prima che romantico viandante sulle vette delle Alpi - e le peregrinazioni del tedesco che, già studente a zonzo per le vie di Friburgo, lasciò negli anni Sessanta la Germania per girare in lungo in largo l’Inghilterra dove visse, insegnò e morì on the road in un incidente d’auto. L’identificazione fu così sorprendente che è impossibile decidere chi dei due sia Il passeggiatore solitario (Adelphi, pagg. 60, euro 5,50) evocato nel titolo dello scrittarello di Sebald «Sulle tracce di Robert Walser».
Assolutamente certo, invece, è che per «prendere» lo scrittore in fuga, non restava che seguirlo in passeggiata: muoversi come lui, abbandonarsi con lui al saliscendi imprevedibile dei sentieri, all’estro di «un umorismo meravigliosamente capriccioso e imbevuto di cupa afflizione». Di Walser, Sebald asseconda il piglio guizzante, ne rispetta l’indole scostante, consente al suo spirito sfuggente: perfino quando lo coglie di scatto in fotografia, lo fissa nel fermo-immagine e ne espone i sette ritratti che mostrano le impressionanti trasfigurazioni del suo volto. Perfino quando va a stanarlo nel suo nascondiglio più intricato e ne riproduce in fotocopia i gremiti, minuziosissimi manoscritti.


L’approccio più vago, quello delle scienze meno esatte - la fisiognomica e la grafologia - è il più atto a cogliere la segreta verità nell’enigmatico passeggiatore. O anche la scrittura poetica di un altro solitario che, accostandosi per simpatetico consentire, restituisce un’espressione al volto misterioso di quel vagabondo e alla sua indecifrabile grafia.

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