WALSER Il tormento di essere tedeschi

Parla lo scrittore che ha appena presentato in Italia il suo ultimo romanzo. «Sull’Olocausto mi hanno frainteso»

Quando poi arriva «l’istante dell’amore» si placano bisticci e baruffe, e ci si può godere serenamente il piacere del testo. Per un momento, fuggevole come il plaisir d’amour, l’hanno creduto anche in Germania i critici e (re)censori di Martin Walser, di regola appostati a tener d’occhio ogni pubblica apparizione dello scrittore polemista imbracciando gli strali dell’accusa e le frecce dell’ideologica denuncia. Non hanno deposto le armi nemmeno per l’uscita, l’anno scorso, dell’ultimo romanzo, Der Augenblick der Liebe, e nel mirino di occhiuti lettori di professione è entrata anche la love story di cui l’autore ha presentato venerdì a Genova la recente traduzione italiana (L’istante dell’amore, Sugarco, pagg. 202, euro 16,80), eseguita da Francesco Coppellotti e letta per l’occasione dall’attore Norman Mozzato. A una frase il settimanale Die Zeit ha inchiodato il raffinato romance che, fra sottili implicazioni filosofiche e intriganti risvolti culturali, si consuma fra un attempato professore e la sua giovane dottoranda intenti a lavorare fianco a fianco sulle pagine di La Mettrie da discutere a un congresso Usa. Eccola: «I sensi di colpa non servono a nulla, non impediscono nulla, né prima, né durante, né dopo il misfatto».
Sentenza incriminata, galeotto il libro e chi lo scrisse. Vale a dire il settecentesco filosofo materialista che accende la scintilla tra i due accademici innamorati e fa divampare la furia degli opinionisti arrabbiati: offesi dalle malcelate intenzioni di rinnegare, col benestare dell’illuminista francese, rimorsi e misfatti tedeschi. Lumi può darne solo l’autore, in Germania campione tra i sospettati e maestro dei fraintendimenti. Ricevendo nel ’98 a Francoforte il premio per la Pace scatenò con la famigerata prolusione nella chiesa di San Paolo (La banalità del bene, Edizioni di Ar) se non una guerra una contesa aspra quanto l’Historikerstreit anni ’80. Con il divertissement poliziesco Morte di un critico (Sugarco) fu accusato di voler far fuori il signore ed arbitro delle belle lettere tedesche, l’ebreo Marcel Reich-Ranicki, nonché tacciato di antisemitismo. E ora, per bocca di La Mettrie, davvero intendeva mettere a tacere la storica colpa della Germania? Sorride il 78enne Walser alzando le sopracciglia arruffate con stupore innocente e malandrino.
«No! Ma ero certo che a quella colpa tutti avrebbero pensato. La frase citata è di un pensatore fondamentale per me perché ha messo a punto una “critica della coscienza” degna di quella della ragion pura di Kant. E la colpa menzionata non ha riferimenti nazionali: il philosoph ne parla come di un sentimento che nuoce alla vita, che turba il piacere del presente per l’essere umano. Ma, prima che un uomo, per chi mi ascolta sono sempre soprattutto un tedesco. Tedesco e incolpato. Specie all’estero: così avranno pensato gli uditori californiani della conferenza del mio protagonista».
Tedeschi erano anche i suoi critici: tanto più sensibili e suscettibili sul tema della colpa. È più difficile e grave rimuoverla, liberarsene o liberarsi dal suo complesso?
«Non c’è alternativa. Non si può vivere senza colpa: quella colpa. Il mio scritto più importante in merito è Auschwitz und kein Ende, “Auschwitz senza fine”, che fa il verso al goethiano Shakespeare und kein Ende per dire: non trascorra un solo giorno senza che io ci pensi. Una volta formulata l’espressione della colpa, non si può più liberarsene. Ma, attenzione: il vero colpevole non dice né sa di esserlo. Non ha parole per prenderne coscienza. Il senso di colpa fa parte di me, e per 40 anni il mio problema è stato cercare, per dirlo, un linguaggio diverso dal discorso pubblico. Quando ho pronunciato pubblicamente le mie parole nella Paulskirche, ho scatenato un putiferio».
Si disse contrario alla monumentalizzazione dell’Olocausto.
«Rifiutavo il monumento berlinese inaugurato a maggio alla Porta di Brandeburgo - incubo grande come un campo di calcio, gettata di cemento sui rimorsi, pietra enorme deposta sulla colpa - e mi accusarono di privatizzare la coscienza. Respingevo la routine della memoria usata come clava morale, la banalità dei cliché ripetuti in un grande luogo comune, e mi incolparono di appropriarmi dei malesseri di coscienza nazionali. Ma “privato” è diverso da “personale”: io parlavo personalmente, di un cruccio di coscienza vissuto in intima solitudine e formulato nella lingua della storia e della tradizione tedesche».
Parlate la stessa lingua senza capirvi...
«Da quattro decenni respiro questo clima di sospetto e fraintendimenti. Negli anni ’60 mi davano del comunista, nei ’70, favorevole alla riunificazione, mi dissero nazionalista. Ora sarei antisemita. Dopo il discorso sull’Olocausto, però, ho ricevuto 2000 lettere entusiaste che mi davano ragione, e sa che mi disse Ignatz Bubis, allora capo della comunità ebraica? “L’hanno fraintesa”».
Eravate il popolo dei filosofi e dei poeti: un riferimento per l’Europa. Oggi non è così: colpa dei misfatti della Seconda guerra?
«Da allora esser tedeschi vuol dire fare i conti con quei 12 anni: 1933-45. Ma quella della terra di pensatori e poeti è favola inventata dai tedeschi per sopravvalutarsi. La mia biografia di lettore è segnata da Strindberg e Dostoevskij molto più che da Hölderlin e Goethe. I romanzi che mi hanno formato sono russi e i “miei” autori sono i maestri dell’ironia: Socrate, Robert Walser, Swift e Kafka. Ripeto sempre una formula che vale per tutti loro: “Di’ di sì al no che il mondo ti oppone”».
Quante volte ha detto ironicamente sì? Accusato dell’omicidio fittizio di Reich-Ranicki, per esempio?
«Non era lui la mia vittima. E poi non ha avuto neanche l’ironia di accettare un confronto scherzoso proposto dallo Spiegel. Amavo quel personaggio e non lo faccio morire alla fine del romanzo: era molto più piacente di Reich-Ranicki».
E l’altro antagonista, l’architetto Peter Eisenmann? Ha visitato il suo Memoriale a Berlino?
«Il monumento è impressionante: una volta dentro non ci sono simmetrie, punti saldi e, sembra, vie di uscita. E il suo autore è uomo intelligente e amabile.

Ci siamo incontrati, gli ho spiegato quel che pensavo, perché la sua opera non mi serviva, ha capito perfettamente. Alla fine del colloquio l’ho baciato in fronte. Ma lui sta in Usa, là c’è un altro clima. Sa che mi ha detto? “A New York per tutti sono un americano. A Berlino sono un ebreo”».

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