Wauters ci fa da guida nel nostro "Museo delle contraddizioni"

È uscito il romanzo "Il Museo delle Contraddizioni" di ​Antoine Wauters: di cosa parla

Wauters ci fa da guida nel nostro "Museo delle contraddizioni"
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Nel Museo delle contraddizioni dove ci conduce Antoine Wauters (Neri Pozza, pagg. 106, euro 17) un punto fermo c'è: quel museo siamo noi, giovani a cui non resta che martoriare il proprio corpo, anziani in fuga da una Rsa, ex poeti che lavorano come magazzinieri, contadini annientati dalle leggi europee, madri che non avrebbero voluto figli, ribelli che diventano conformisti, falliti in lotta con il mondo e con noi stessi, rassegnati eppure pieni di rabbia, sull'orlo del baratro, ma ancora un filino speranzosi.

Per attraversare le stanze del Museo, lo scrittore belga si affida ad alcune guide: Calvino e il suo Barone rampante; Roland Barthes; le poesie di Sylvia Plath e di Ingeborg Bachmann; i crepuscoli dell'esistenza di Fitzgerald; Noi di Evgenij Zamjatin; gli Scritti corsari di Pasolini; La strada di McCarthy; Gerry di Gus Van Sant. Ma anche le imprese dell'ultrarunner Anton Krupicka: correre correre correre, senza mollare mai la presa, la libertà che, da qualche parte, ancora ci attende. La luce che ci permette di parlare, di far sentire la nostra voce: e sono molte, le voci a cui Wauters permette di dare sfogo, con la lingua poetica che hanno già conosciuto i lettori di Mahmoud o l'innalzamento delle acque (Neri Pozza 2023), un poema sulla tragedia della Siria.

Le voci sono, per esempio, quelle dei ragazzi che si rivolgono al «signor giudice», e che non hanno più parole se non per dire «una cosa»: «Non abbiamo più un posto dove vivere. E ci struggiamo». L'unico luogo rimasto è il museo della contraddizione, un museo molto personale «dove da un lato c'è il desiderio di farsi del male, dall'altro quello di farsi del bene», dove ci si uccide e ci si ama, dove «la tristezza è totale, ma il pensiero che qualche volta dal letame nasca una rosa non ci abbandona». C'è la voce degli abitanti del «paese ottuso» che vanno sulla tomba dei nonni per raccontare che «hanno chiuso il mondo, e hanno buttato via la chiave», se tossisci (da sotto la mascherina) paghi una multa e ormai «non essere d'accordo è sufficiente» per illudersi di essere vivi. Ci sono le madri che abbandonano la carriera per rifugiarsi lontano dalla città, sciolte dagli obblighi ma con le sovvenzioni statali, secondo le quali «bisognerebbe riscrivere la storia come un millefoglie di cause tutte estranee a noi, ma interiorizzate al punto da considerarle giuste e imprescindibili». E che improvvisano canti per esorcizzare la paura, un terrore latente che smuove le contraddizioni come un magma: ho sbagliato tutto, avrei potuto, dovrei, domani cambierò... È la paura delle giovani poetesse diventate romanziere di successo, che volevano «entrare in ogni parola» con tutto il loro corpo e da piccole sarebbero morte all'idea di venire incasellate, e invece producono bestseller osannati per il loro «impegno»: «Ecco quello che volevate. E noi, pensando che vi dovevamo chiarezza, suonavamo lo spartito fino alla caricatura».

Voci imperfette, fragili,

erranti, spaesate, sfinite. Wauters fa parlare gli ultimi dell'Occidente che ancora finge di offrire la felicità mentre dentro soffre e muore. Ma va avanti a raccontare, perché «tutte le storie curano, tutte guariscono».

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