Weylandt, quando la morte piomba sul Giro

nostro inviato a Rapallo

Non era un campione. Non ancora. Forse non lo sarebbe diventato mai. Certamente non lo diventerà. A soli 26 anni, l’età dei sogni, Wouter Weylandt è solo un martire del Giro d’Italia. L’ultimo ad entrare nel triste pantheon del ciclismo, lo sport di gran lunga più pericoloso, molto più della formula 1, della motogp, del pugilato e di qualunque altro. Lo dicono le statistiche, lo dice con il suo istinto d’acrobata anche Valentino Rossi: una volta, rispondendo a Cipollini, tenne a precisare che «voi, su quelle ruotine, lungo certe discese, rischiate molto di più e mettete molta più paura di me».
Quando si va per strada in bicicletta, anche un semplice turista lo sa, il rischio sale in sella con chi pedala. Figuriamoci quale peso si porti dietro chi pedala per mestiere, ad altissimo livello, nel più breve tempo possibile, alla più alta velocità possibile. Wouter Weylandt, mite gigante belga, aveva scelto questa vita, seguendo una passione. A vent’anni gli era riuscita la massima fortuna che possa capitare a qualsiasi uomo: trasformare la propria passione in un mestiere. Finora undici vittorie: per tragica combinazione, la più importante proprio nella terza tappa dell’ultimo Giro. Un anno dopo, alla terza tappa, la fine della corsa. Scendendo dalla discesa del Bocco, una tipica discesa ligure, in un tratto niente di che, diritto e neppure ripido, Wouter si volta un attimo, come tante altre volte, come fanno tutti i corridori per controllare la situazione prima o dopo una curva. Un errore di calcolo, una distrazione: stavolta, almeno stavolta, abbiamo tutti il dovere di evitare le piccinerie delle inutili accuse. Il Giro, il Tour, le corse mille volte propongono percorsi e situazioni infinitamente più rischiosi. In questo caso non ci sono molti appigli, per gli accusatori permanenti. Weylandt paga nel modo più crudele il suo attimo di distrazione: con il pedale tocca il muro di lato, perde il controllo e finisce per sbattere. A ottanta all’ora la lotteria è sempre rischiosissima. Un mese fa, in una corsa belga, era volato paurosamente e non si era fatto quasi nulla. Stavolta non è così, stavolta è la sua ora.
Anche se la magistratura ha già aperto l’inchiesta di routine per ricostruire i dettagli, adesso lo si sa, adesso lo si può dire: il ragazzo muore sul colpo. Sul momento, com’è giusto e com’è doveroso, l’equipe medica del Giro, una delle più attrezzate, delle più esperte, delle più pronte, tenta la disperata rianimazione. Soltanto due anni fa il miracolo era riuscito con lo spagnolo Pedro Horrillo, volato in un burrone al valico di San Pietro, tra Bergamo e Lecco. Anche a Rapallo il professor Tredici e i suoi collaboratori provano di tutto, ma inutilmente. Inutile anche l’arrivo sul posto dell’elicottero, chiamato con un appello tv per il black-out delle linee telefoniche. Wouter Weylandt è già partito verso percorsi celesti e non tornerà più indietro. Per lui si può solo pregare.
In questi lunghissimi minuti, il Giro d’Italia rivive sensazioni, paure, commozioni purtroppo già note. La diretta Rai, rispettosamente, assume subito il registro della compassione, evitando di cadere nella trappola idiota dello «show must go on». Il pubblico segue attimo dopo attimo l’ansiogena corsa della speranza, mentre in strada il gruppo dei corridori procede verso il traguardo, senza ancora conoscere la pesantezza del destino. Sul traguardo di Rapallo avviene qualcosa di molto umano, di molto pietoso, di molto alto: là dove da giorni si monta la festa delle luci, delle musiche, dei colori, improvvisamente la mano della compassione spegne l’interruttore. Direbbero i cronisti di una volta: atmosfera irreale. Invece è molto reale, per fortuna. Il patron Angelo Zomegnan annulla tutto il cerimoniale delle premiazioni. Lo speaker ufficiale, Stefano Bertolotti, commenta a mezza voce l’arrivo dei corridori. Il lungomare di Rapallo è sovrastato dal silenzio profondo di una folla impietrita, come in attesa di una notizia impossibile, che riporti sollievo. Ma non è così. Tutto è già compiuto. Soltanto il pietoso rispetto per i parenti in Belgio, soprattutto per la giovane moglie che aspetta un bimbo, tiene accesa la finta speranza: prima, bisogna preparare loro.
La messinscena della pietà riguarda tutti. I compagni di squadra, i colleghi degli altri team, direttori sportivi e massaggiatori, subito dopo il traguardo chiedono informazioni e pronunciano le stesse parole: «Speriamo». Cadere, nel ciclismo, è normale e ordinario. Saranno pure dannati, con tutte le loro maledette storie di doping, ma rischiano davvero e le cadute sono tremendamente vere. Cadono tutti i giorni, cadono come manichini di plastica, rompono ossa e ci lasciano denti, ma ogni volta si rialzano e al massimo finiscono al pronto soccorso.
Così, per lunghi minuti, sono in molti a credere che anche stavolta lo sfortunato, comunque, ne uscirà. Ma non è così.

Alle 17,25, un’ora dopo l’irrimediabile, la notizia diventa ufficiale. Il lutto segna di silenzio e di pianto la carovana dei colori, dei suoni e dell’allegria. Tutto torna improvvisamente nell’alveo del fatuo e dell’inutile, sbancato dall’invadenza prepotente della morte.

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