WILLA CATHER Vietata ai minori di quarant’anni

In «La nipote di Flaubert» narra l’intima amicizia con Caroline Franklin-Grout

Per creare un dramma bastano una passione e quattro mura, diceva Dumas padre. Se le mura sono quelle di un vecchio albergo nel Sud della Francia, e le passioni quella per la musica di Madame Caroline, quella per le lettere di Mrs Willa, più la trepida ma prudente curiosità dell’una verso l’altra, la restia ma benevola confidenza dell’altra verso l’una, il dramma che va in scena può avere l’appeal attizzante di uno spettacolo proibito.
Tant’è che fu vietato ai minori. E non per l’insinuante rivelazione del legame sublimemente platonico, segretamente semi-incestuoso, che la grande dame francese aveva intrattenuto negli anni verdi con un irresistibile zio. Né perché la sophisticated lady americana in gioventù aveva preferito firmarsi «William Jr», o «Dr. Will», così da comparire con un titolo più acconcio accanto alla compagna di una vita Edith Lewis. Per entrambe il tempo degli amori trasgressivi era trascorso da un pezzo. Senza che per la recita interpretata dalle due protagoniste, Madame Caroline Franklin-Grout - in arte Caro: nella prosa epistolare di un artista, cioè, il fratello di sua madre, lo zio Gustave Flaubert - e Willa Cather (1873-1947) - nella vita come sulla copertina delle sue poesie e dei suoi tredici romanzi -, cessasse di valere la raccomandazione cautelativa: solo per adulti.
Not Under Forty, «Non sotto i quaranta» è il titolo di un libro scottante che nel 1936 la narratrice statunitense - già ultrasessantenne - destinò ai suoi lettori più navigati: i meglio cresciuti, i più disinibiti e smagati. E se la traduzione italiana (eseguita da Monica Pareschi) addomestica la pruderie dell’originale con il titolo più familiare La nipote di Flaubert (Adelphi, pagg. 136, euro 9,50), non si esorcizza perciò lo scandalo che queste pagine susciteranno tra lettori ingenui, inermi, vergini di divertimenti per i grandi.
I grandi giocano con le belle lettere, e di romanzi conversavano, all’epoca del loro «incontro casuale» - era il 1930 - le due attempate ospiti del Grand-Hôtel d’Aix-les-Bains, nella stazione termale savoiarda. Dei romanzi dello zio, naturalmente, ma solo dopo che l’ottantaquattrenne nipotina ebbe appurato: «forse ne avete sentito parlare». E non quelli di cui molti (forse) hanno sentito parlare - Madame Bovary, L’educazione sentimentale -, bensì quelli che i più mentono di avere letto: Bouvard e Pécuchet o La tentazione di sant’Antonio, i più amati dall’erede, e Salammbô, il favorito dell’americana. Poi degli autori che facevano parte della biblioteca e dei ricordi di famiglia Flaubert, come Turgenev («Lo conoscevo bene, un tempo. Era un grande amico di mio zio». E pare si fosse incapricciato della petite nièce), o Anatole France («Oh, mi piace moltissimo, soprattutto quando è evidente il suo debito» verso il parente). E di quelli che da scaffali e memoria familiari si sarebbero voluti escludere: Balzac, che «è ignorante come una capra e borghese fino al midollo», diceva zio Gustave, o George Sand, che era «più compiaciuta che altruista, sempre narcisista e un tantino ipocrita», gli faceva eco la nipote.
Di Flaubert, tra l’altro, suppone la Cather, la discendente aveva lo stesso tono, lo stesso sangue e un’anima gemella: «Anche se era stata sposata due volte - scrive - non accennò mai né all’uno né all’altro marito. La figura dominante della sua vita era sempre stata lo zio, e bastò quel breve periodo di frequentazione a farmi percepire che lei possedeva ogni qualità per essere un’ottima compagna per lui».
Da quella viva voce (e da tutti i suoi echi), Willa Cather si sentì invitata a continuare a pronunciarsi con lo stesso tono in fatto di lettere, anche dopo il congedo da Madame Caroline alla fine di quell’estate francese e dopo che la notizia della sua scomparsa la raggiunse in Quebec nell’inverno successivo. Alla francese, in ossequio alla propria interlocutrice di eccezione, scrisse di lì a poco del romanzo «démeublé»: spoglio, cioè, spazioso, disadorno, diverso dalla «casa troppo carica di orpelli» che pareva diventato dopo che «il trovarobe si è tanto sbizzarrito sulle sue pagine». Per sedurre lettori svezzati, smaliziati e maggiorenni da almeno un ventennio, ci vuole ben altro che il fasto di arredi sovraccarichi buoni per incantare i pivelli - «il povero liceale sgobbone», «il laureando» imbevuto «di Freud fino al midollo e avviato in quattro e quattr’otto al giornalismo» - e le coquette cedevoli agli sfavillanti luccichii di articoli messi in mostra «dalla mano di un vetrinista» e presto simili a merce esposta in «una Fiera Universale dopo qualche anno di abbandono».
Bacchettate di lettrice (e scrittrice) non bacchettona. Basti a provarlo, oltre alla lettura dei suoi romanzi (in italiano: La casa del Professore e La morte viene per l’Arcivescovo, da Giano e Una signora perduta da Adelphi), la senile leggerezza - frivolezza persino - con cui drammatizza nella cornice di una scena di viaggio, il suo incontro con Katherine Mansfield, mediato da un suo conoscente (e detrattore) salpato con lei da Napoli. O il riconoscimento del suo debito a Miss Jewett (la Sarah Orne Jewett che scrisse del New England per rinvigorirne la lingua nativa), frequentata nel salotto di Mrs Fields, al 148 Charles Street di Boston dove, per il tè, usavano riunirsi Dickens e Thackeray, Matthew Arnold, Emerson e Hawthorne.
Sono questi i padri putativi che, accanto a Stevenson, Henry James, Turgenev e Flaubert, educarono l’americana al gusto della prosa classica e - letteralmente: nel segno delle belles lettres - l’apparentavano alla vegliarda Caroline. Doveva essere, quello bostoniano, un salotto di classe: nudo, austero, severamente elegante. Così sarebbe piaciuto alla scrittrice che, prima di conoscerne la nipote, aveva imparato da Flaubert «l’art de choisir», per fare della propria narrativa «un’arte della selezione». E che, aggirandosi nella propria biblioteca grondante di romanzi si augurava: «Come sarebbe bello poter gettare dalla finestra tutta la mobilia...

per lasciare la stanza nuda come il palcoscenico di un teatro greco o la casa in cui discese la gloria della Pentecoste». O come un vecchio albergo alle terme: «niente affatto sfarzoso», «confortevole», «costruito per i viaggiatori di quarant’anni fa».

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