Yes, I spic globish Il mondo sparla inglese

Domani sarà la Giornata internazionale della madrelingua, evento istituito dall’Unesco nel 1999 con lo scopo di proteggere e promuovere la diversità linguistica e l’istruzione plurilingue. Ciò significa che anche le lingue, come la foca monaca, hanno bisogno di essere protette? Sembrerebbe di sì, se è vero lo scenario descritto da David Crystal in La rivoluzione delle lingue (Il Mulino): «Nel mondo, circa 400 milioni di persone usano l’inglese come madrelingua, circa altrettanti come seconda lingua - cioè strumento di comunicazione in domini come il governo, i tribunali, i media e il sistema dell’informazione - e 600 milioni o giù di lì lo usano come lingua straniera (quella che si studia a scuola): un totale complessivo di circa un miliardo e 400 milioni, approssimativamente un quarto della popolazione mondiale». La famigerata globalizzazione ha colpito ancora? «A volte - risponde Giuseppe Sabatini, presidente dell’Accademia della Crusca - si dice che il predominio di una lingua finisce con il comportare l’offuscamento delle altre. In realtà, per definizione una lingua mondiale può essere una sola. L’inglese, attualmente, gode di questo privilegio non tanto in base al numero dei parlanti, elemento non determinante, quanto all’importanza e al prestigio conquistati nei campi culturale, economico, politico e tecnologico, fattori determinanti per il successo e la diffusione di una lingua».
«La globalizzazione è un fenomeno complesso e multiforme, che ci coinvolge tutti nella vita di ogni giorno - riflette Giovanni Adamo, ricercatore di Linguistica presso l’Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee del CNR come pure autore, con Valeria Della Valle, di Duemilasei parole nuove. Un dizionario di neologismi dai giornali (Sperling&Kupfer) -. Per rappresentarcela in modo molto sintetico, possiamo dire che la globalizzazione consiste nella progressiva caduta delle frontiere che fino a pochi anni fa determinavano e ostacolavano la libera circolazione delle persone, delle loro tecnologie e dei loro prodotti. Perciò si avverte oggi, in modo molto più forte e coinvolgente che nel passato, il bisogno di una lingua internazionale che assuma il ruolo di veicolo della comunicazione tra popoli e culture in precedenza anche molto distanti tra loro. D’altra parte, è sempre più viva la necessità delle comunità locali di maturare una piena consapevolezza dei fenomeni che si vanno producendo in ambito globale e, al tempo stesso, di conservare la propria identità e le proprie tradizioni».
A guardarlo meglio però questo inglese globalizzato non è più l’inglese di Londra ma nemmeno più quello di New York: tre parlanti inglesi su quattro, oggi, sono non nativi. «Cosa succede - si chiede Crystal, docente di Linguistica nell’università gallese di Bangor - quando un numero elevato di persone adotta l’inglese nel proprio paese? Risposta: succede che esse sviluppano un inglese per conto proprio, varietà denominate New Englishes e sviluppate aggiungendo all’inglese parte del lessico locale, concentrandosi sulle variazioni culturali locali e sviluppando nuove forme di pronuncia». Non solo, l’inglese sembra destinato a ulteriori rimescolamenti se, come scrive Crystal, «Il principale trend linguistico del XXI secolo sarà la commutazione di codice», cioè le lingue, o meglio, secondo la precisazione di Sabatini, «le realtà d’uso», che si creano quando persone che comunicano tra loro ricorrono contemporaneamente a due o più lingue: da qui il franglais (francese-inglese), il japlish (giapponese-inglese), lo spanglish (spagnolo-inglese americano, fenomeno spunto anche per un film hollywoodiano di qualche stagione fa) e così via. Un dialogo in spanglish per esempio suona così: Anita: “Hola, good morning, cómo estás?”. Mark: “Good, y tú?”. Anita: “Todo bien. Pero tuve problemas parqueando mi carro this morning”. Mark: “Sí, I know. Siempre hay problemas parqueando in el area at this time”. Una situazione possibile anche in Italia, sull’onda dei flussi migratori extraeuropei, chiediamo a Sabatini? «In linguistica non si fanno profezie, anche perché le lingue hanno tempi di trasformazione e adattamento lunghissimi. Inoltre la popolazione italiana è ancora coesa quindi è difficile la nostra lingua possa subire delle vere ibridazioni. Semmai saranno possibili degli adattamenti, che ci sono sempre stati: ormai chi si ricorda che formaggio è un francesismo del XII-XIII secolo?». E Adamo: «È possibile che anche in Italia e negli altri Stati europei si producano nel tempo quei fenomeni di ibridazione osservati nel continente americano. Tuttavia i cambiamenti e gli incroci tra le lingue si determinano in tempi molto lunghi, e poi occorre mettere in conto che circa il 10% dei cittadini che vivono negli Stati Uniti sono di madrelingua spagnola».
Tornando all’inglese come lingua d’uso internazionale è innegabile la sensazione che «Paese che vai, inglese che trovi»: parliamo a qualcuno in inglese e questi ci risponde nella stessa lingua ma noi non capiamo nulla o quasi perché il suo inglese suona molto diverso dal nostro. Inconvenienti cui cerca di porre rimedio, a tavolino, il francese Jean-Paul Nerrière, inventore del globish (contrazione di global english): nel suo Parlate globish (Agra Editrice) Nerrière propone un inglese semplificato che utilizza un numero limitato di parole (non più di 1500) e una particolare costruzione delle frasi. Non una nuova lingua, ma uno strumento di comunicazione che, secondo Nerrière, «parte da una constatazione inevitabile, il dominio della lingua inglese e ne trae profitto per fare qualcosa di pratico e semplice. Non un’invenzione o un artifizio, ma piuttosto un adattamento».
Il dominio dell’inglese, o dei “nuovi inglesi”, è forse inevitabile, ma in questi anni lingue considerate perse o chiuse in riserve linguistiche sono tornate a reclamare i loro diritti: dal 1° gennaio 2007 il gaelico irlandese sarà ammesso tra le lingue ufficiali dell’Unione europea (e sarà la ventunesima) mentre nell’Isola di Man, posta tra l’Irlanda e l’Inghilterra, il celtico locale, il manx, considerato estinto nel 1975 con la morte dell’ultimo manxofono, tornerà a essere insegnato nelle elementari (sul manx e i rapporti tra Isola di Man e Gran Bretagna ricordiamo il romanzo di Matthew Kneale Il passeggero inglese, Bompiani, 2002). Mentre in Francia vive tuttora la legge Toubon, che nel 1994 impose l’uso della lingua francese nella stesura di documenti pubblici, contratti e nel campo dei media. Tuttavia prima di inalberare la bandiera del localismo è bene ricordare, con Adamo, che «per mantenere viva una lingua non basta mantenerne viva la memoria, occorre che quella lingua sia in grado di evolversi al passo dei cambiamenti sociali, culturali, politici e tecnologici che si producono». E Sabatini distingue tra «lingue che hanno alle spalle uno Stato, come l’Irlanda, e lingue che sono espressione solo di comunità, come il manx o il ladino: una lingua può aspirare a uno status internazionale solo se corrisponde a uno Stato, altrimenti è una babele. Quella del gaelico è, per noi italiani, una amara lezione: nell’ambito dell’Unione europea i nostri governi, di qualsiasi colore politico, sono da tempo colpevoli di trascuratezza nella difesa e nella promozione della lingua italiana».


In ogni caso e in conclusione, come scriveva il grande poeta siciliano Ignazio Buttitta, «un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua avuta in dote dai padri. Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole e si mangiano tra loro».

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