Ospite di Gheddafi o in una cella russa: cambia la tecnologia non l’anima da inviato

Una memoria di Fausto Biloslavo, inviato de Il Giornale in tutto il mondo

Ospite di Gheddafi o in una cella russa: cambia la tecnologia non l’anima da inviato
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«I russi? Me li ricordo bene in Finlandia nel ’41». Sono le parole di Indro Montanelli dopo avere ascoltato i racconti delle mie disavventure afghane catturato dai sovietici. Nel 1988 il Giornale ospitò 11 puntate sulla prigionia a Kabul, durata sette mesi, con il direttore che correggeva le cartelle battute a macchina impugnando la vecchia matita rossa e blu. Se usava troppo la parte rossa bisognava riscrivere tutto.

Del grande inviato mi rimane impressa la storica foto, seduto per terra, mentre batte il pezzo sulla leggendaria Lettera 22. Fino alla sanguinosa disgregazione della Jugoslava di Tito, la guerra alle porte di casa, si usava ancora la macchina da scrivere dettando gli articoli ai dimafonisti, che magari non avevi mai visto in faccia, ma diventavano amici e confidenti fra una bomba e l’altra.

In pochi anni sarebbe cambiato tutto con il computer portatile, il satellitare, l’avvento di Internet e dei social, la guerra raccontata in diretta. Per farlo, però, bisogna sempre andare sul campo come ci ha insegnato non solo Montanelli, ma i grandi inviati del Giornale da Egisto Corradi, tenente nella campagna di Russia, a Livio Caputo, che in un’imboscata si è salvato dai vietcong tirando una bomba a mano, fino a Lucio Lami, sfiorato da un cecchino a Beirut.

In quasi quarant’anni di reportage per il nostro quotidiano sono tanti i ricordi come l’entrata per primo, fra i giornalisti italiani, nella Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. L’inizio della guerra al terrore e dell’illusoria esportazione della democrazia come se fosse un televisore o una lavatrice da attaccare alla corrente per farla funzionare a qualsiasi latitudine. Chi avrebbe mai immaginato di vedere sventolare il tricolore a Kabul, Herat, Nassirya? Le «guerre» di pace degli italiani raccontate per Il Giornale in mezzo al sangue e al sudore dei nostri soldati.

Non ci siamo fatti abbindolare dall’ubriacatura delle primavere arabe, che si sono trasformate ben presto in gelido e sanguinoso inverno. Muammar Gheddafi mi ha accolto nella famosa tenda verde da beduino, in mezzo a Bab al-Aziziya, la sua roccaforte a Tripoli, mentre fuori si sparava, per l’ultima intervista ad una testata italiana prima del suo linciaggio, pochi mesi dopo. Alla vigilia dei bombardamenti della Nato, il colonnello sceglieva il Giornale nella speranza che Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, fermasse l’irreparabile. Nell’intervista esclusiva, ripresa dalle testate di mezzo mondo, aveva previsto tutto: l’arrivo di un milione di clandestini dall’Africa, la perdita dei nostri interessi strategici ed energetici, il caos in Libia e la sua morte.

Biloslavo

E proprio a Sirte, la città natale di Gheddafi, ho cominciato a seguire per Il Giornale l’ascesa e la caduta delle «capitali» dello Stato islamico. Battaglie durate mesi, anche a Mosul e Raqqa, senza pietà, fra cecchini e brandelli di kamikaze che ti piovevano addosso. Non basta più l’articolo, ma bisogna essere in grado di fare tutto, inviando foto, video per il sito e postando sui social. «È la multimedialità, bellezza», direbbe oggi Humphrey Bogart.

Non avrei mai immaginato, quarant’anni dopo il primo reportage in Afghanistan invaso dai sovietici, di tornare a Kabul per assistere alla Caporetto della Nato e alla riconquista del potere dei talebani.

L’inizio del peggio, una terza guerra mondiale a pezzi, come sostiene Papa Francesco, esplosa con l’invasione russa nel cuore dell’Europa. La guerra in Ucraina la sento anche «mia» dopo mesi passati al fronte, pubblicando sul Giornale la storia dei civili in fuga sul ponte distrutto di Irpin, dei giovani difensori di Kiev come i ragazzi di Budapest e Praga del secolo scorso, dei «morituri» che tiravano la monetina per il cambio in trincea, delle battaglie disperate nelle roccaforti perdute a Severodonetsk, Bakhmut, Avdiivka. Solo dopo il cinquantesimo sibilo di una granata, che significa impatto a distanza ravvicinata, e puoi solo buttarti a terra sperando di salvarti dalle schegge, ho deciso di tirare il fiato.

Le guerre non si combattono solo con i proiettili, ma è sempre più pesante il conflitto dell’informazione e della disinformazione. Il Giornale ha pubblicato i reportage dell’ultima guerra fra israeliani e palestinesi, che mi sono imposto di raccontare da tutte e due le parti della barricata. Il giovane paracadutista, che viene dall’Italia, con la stella di David e il tricolore sulla giubba. I funerali ogni giorno, dopo una notte di scontri, dei palestinesi di Hamas in cittadine come Jenin, soprannominata la «piccola Gaza».

L’importante è tratteggiare il lato

oscuro dell’umanità con un minimo di onestà intellettuale e serietà professionale per essere sempre gli occhi della guerra dei lettori seguendo l’esempio della vecchia scuola, come ai tempi dei «russi, in Finlandia, nel ’41».

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