Soltanto chi ha sentito l'odore acido di sudore di una palestra, anzi ne è stato addirittura attratto, desiderando che gli penetrasse le narici, si mischiasse col sangue, lasciandosi ipnotizzare dal tonfo sordo dei colpi sui sacchi come fosse una musica muta, una danza tribale, un pianto arcaico, può davvero comprendere cosa significhi salire su un ring, combattere come se un incontro valesse la vita intera, fosse tutta la vita, per conquistarsi quella felicità folle, quel valore inutile e assoluto che è la gloria. Lo ha capito certamente Aurelio Picca, scrittore che alla follia ha dedicato ogni pagina, e dico alla follia, non alla sua cura, perché senza di essa la pagina non esisterebbe affatto, e una pagina senza eccesso di vita è come un corpo che non può amare e soffrire, che non può neppure aspirare a morire.
Esce ora il suo La Gloria (Baldini+Castoldi, pagg. 190, euro 17) e mi è parso di ritrovare il Picca non dei pur straordinari romanzi, quello per esempio di Sacrocuore (2003) o di Se la fortuna è nostra (2011), ma il Picca degli esordi, di La schiuma (1992) e di I mulatti (1996), lo scrittore di racconti che sono frammenti di luce e delirio, di gesti fulminei, come possedessero lo scatto e la precisione di quei movimenti che soltanto la giovinezza regala, e ogni parola, quasi fosse un diretto tanto rapido da stordire l'avversario, è una scommessa e una promessa. Se Picca non è mai stato un pugile certo il pugilato lo ha amato visceralmente. Non il pugilato degli atleti diventati macchine per psicologi e scienziati, ma quello sanguigno, di uomini che sono partiti da niente, che erano poveri e nudi, e ai quali il ring ha concesso di opporsi a un destino già segnato, ribaltando le logiche della vita, il pugilato degli uomini veri, nati umili e rimasti tali. «Rimasi stordito da un mondo arso di corpi impastati. Per me i pugili non furono mai semplicemente i boxeur; per me essi furono i pugilatori, cioè lottatori: coloro che, nudi e poveri, si colpivano e si abbracciavano leccandosi vicendevolmente sangue e lacrime; coloro che, al limite della sopportazione, distrutti come soldati allo sbando, si inchinavano e inginocchiavano al loro misero martirio, offrendolo a tutti; offrendo ciò: sul piatto della disciplina e della lealtà».
Ricordo di aver letto una volta che Nino Benvenuti, il pugile più grande tra i campioni italiani, nato in Istria, una terra di confini mai definiti, dove i confini si tracciavano col sangue, aveva cominciato a boxare perché la palestra era il solo luogo in cui poteva farsi una doccia con l'acqua calda. I campioni veri restituiscono senso e dignità alle ferite della vita, le trasformano in gloria. Non è un caso che sia proprio Benvenuti uno dei protagonisti del libro di Picca. Benvenuti, per lo scrittore, è il mito dell'infanzia e della giovinezza, il campione per il quale in famiglia si discuteva, si tifava, ci si azzuffava - zio Franco e il nonno di Aurelio osannavano Nino, zio Romano era tutto per Alessandro Mazzinghi, rivalità che mai possono risolversi, perché si sceglie un campione o una squadra di calcio mai con la testa ma col cuore. E capita che Picca racconti l'incontro per il titolo dei medi nel 1965 proprio tra Benvenuti e Mazzinghi al Palazzo dello Sport di Roma, che per l'occasione era diventato un Colosseo, l'arena di un mondo antico: «Ho rivisto il combattimento fino a mandarmi la pressione a 110 di minima. Dio Santo che eleganza e forza. Che giovinezza di una giovinezza perduta».
La ferocia non è violenza; gli avversari non sono nemici; la sconfitta non è un disonore. I pugili vivono la follia della realtà. Quello che si compie sul quadrato del ring è un rito di sacrificio, un atto sacro e conoscitivo. Gli avversari non si odiano, anche se tra le corde sono pronti a uccidersi, sono uomini che offrono l'uno all'altro la propria nudità. Lo dichiarava lo stesso Benvenuti in un'intervista di qualche anno fa parlando del suo rivale di sempre, Emile Griffith, dicendo che non si può non diventare amico di un uomo con cui hai condiviso la bellezza di quarantacinque round, volendo dire con questo che niente come un incontro di pugilato fa conoscere l'intima verità di una persona, perché in un incontro emergono il talento ma anche le fragilità, quei punti deboli che l'avversario deve individuare e colpire; soltanto che, una volta conosciuta la fragilità di un uomo, quello ti sarà per sempre fratello. «Non posso rivedere quel match tra Benvenuti e Griffith su YouTube o dove lo trovo, perché mi metto a piangere. Quando da adulto ho conosciuto Nino e lo andavo a trovare a piazza Istria dove abitava, lui ripeteva: Ho combattuto al Vecchio Madison, non al nuovo. Dicendomi così intendeva: Mi sono battuto dove giacciono le lacrime della Gloria. () Il combattimento al Madison fu violentissimo e di raffinata fattura pugilistica. Emile Griffith era un piccolo, adorabile gay nero. Elegante, tosto. Morì stanco e piegato dall'Alzheimer. Di tanto in tanto Nino volava in America per aiutarlo. Dopo il verdetto che lo proclamava nuovo Campione del mondo dei pesi medi, Nino afferra un tricolore e lo agita come uno straccio. Gesto violento di passione e sangue».
Ma non soltanto di pugilato scrive Picca ne La Gloria. Perché la gloria appartiene a tutti quegli uomini che hanno compreso che lo sport non era un hobby o un passatempo per modellare il fisico e la salute, ma, se giocato con la lealtà degli uomini che hanno a disprezzo le pose e l'ipocrisia, vale quanto una promessa che si fa con la follia della vita. E allora scorrono su queste pagine piloti di formula uno, Senna e Villeneuve su tutti; ciclisti, Pantani, Gianni Motta, Gimondi; ma anche la vitalità malandrina delle corse dei cavalli e la sacralità feroce di una corrida a Siviglia. E non poteva mancare il mondo del calcio. Non il calcio tutto, ma quello di una squadra in particolare, la Lazio irripetibile dello scudetto glorioso del 1974. Una squadra di meravigliosi pazzi. E sfilano in queste pagine Re Cecconi e Oddi, Pino Wilson e Mario Frustalupi, Vincenzo D'Amico e Luigi Martini, il Maestro Maestrelli e l'uomo che più di ogni altro ha scommesso, sfidando tutti, avversari e compagni, abitato da un demone che lo ha fatto vincere e franare, il selvaggio dagli occhi azzurri, il gigante buono e feroce, il bomber Giorgio Chinaglia.
E allora capiamo cosa stia davvero a cuore a Picca.
Non la sciatta idea di vittoria, ma la dignità degli uomini veri che hanno versato fino all'ultima goccia di sangue per non sprecare un attimo di vita, che hanno messo in gioco se stessi fino a perdersi. Quelli che hanno avuto accesso alla sola vittoria che conti realmente: che hanno trovato la Gloria.
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