L'arte del Ventennio? Fu libera dalla politica

Vittorio Sgarbi replica a chi contesta la sua "formula" secondo cui il Regime non dettò mai alcuna estetica

L'arte del Ventennio? Fu libera dalla politica

Ha avuto fortuna la formula «Nell'arte non c'è fascismo. Nel fascismo non c'è arte» per presentare la mostra Arte e Fascismo al Mart di Rovereto (con sontuoso catalogo de «L'Erma di Bretschneider») e il mio libro che l'accompagna Arte e fascismo (La nave di Teseo). Ha istantaneamente colpito molti, ma ha lasciato dubbi in altri, manifestati in una sapida nota di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera: «L'affermazione suscita subito però due domande: Ma essere fascista vuol dire davvero questo, e cioè obbedire al potere sempre e comunque?, e poi: Ma forse che un ingegnere o un chirurgo fascista sono invece disposti, loro sì, a obbedire al potere quando fanno un'operazione o progettano un ponte?. Con il criterio di Sgarbi, insomma, i fascisti, alla fine, rischiano di essere solo i pavidi, i fessi o gli esaltati. Perché non ammettere allora che Sironi, Carrà, Maccari, Pagano, Moretti, Terragni e cento altri furono genuinamente fascisti e credettero davvero che fosse quella la soluzione dei problemi del loro tempo? Perché non ammettere che in politica anche gli artisti possano prendere delle solenni cantonate?». Obiezioni convincenti, ma che non tengono conto della ininfluenza della fede fascista, come scelta politica, anche convinta (è il caso di futuristi come Filippo Tommaso Marinetti e Fortunato Depero) rispetto alla libera creatività della espressione artistica, perfino quando spontaneamente asservita.

Nel giudizio sull'opera di Sandro Botticelli può essere utile studiare il suo rapporto, di fideistica esaltazione, con Savonarola, ma non è da quello che deriva la sua concezione estetica. E Botticelli fu certamente colpito dalle prediche di Girolamo Savonarola: abbandonata la filosofia neoplatonica, si volse a un'arte quasi visionaria, caratterizzata da un fortissimo misticismo (Natività mistica, 1501, Londra, National Gallery). Si trattava di una concezione che lo portò a revocare anche la spazialità conquistata dal Rinascimento. Intendo che la presenza del fascio in un'opera di Depero non condiziona in alcun modo il suo stile e la sua formula futurista, così come nell'opera di certamente fascisti «aeropittori», come Tullio Crali, in Incuneandosi nell'abitato (1939) o Renato di Bosso in Macchine da guerra (Bombardiere aereo) (1942). Anche dove il Fascismo impone i temi come nel premio Cremona, voluto da Farinacci, «Il grano», la risposta di pittori come Pietro Gaudenzi, nel suo memorabile Trittico, o di Bruno Amadio, in La nazione è poggiata sulla terra, con tutto il rischio di soluzioni retoriche, sono libere, potenti e originali. Per questo, anche dove all'apparenza si impone, nell'arte non c'è fascismo. Anche quando l'artista è fascista.

Paradigma di questo rapporto tra arte e potere è l'esperienza di Fortunato Depero, fascista così convinto da immaginare un'«Officina d'arte fascista Depero», di cui resta una notevole corrispondenza indirizzata tra l'altro al Ministero per la Stampa e la Propaganda.

Al Mart si conserva la sua «Relazione dei miei rapporti artistici con il fascismo», presentata come rapporto alle autorità antifasciste di Trento nel 1945: motivando e difendendo i progetti realizzati per il regime, si dichiarava estraneo al fascismo e ricordava le sue collaborazioni con il regime, compiute «perché ordinatomi, perché anch'io dovevo pur guadagnarmi il pane». Era una verità candida quanto insufficiente a garantirgli l'invito alle Biennali del dopoguerra. E anche per Sironi e Carrà, evocati da Galli della Loggia, la considerazione è analoga. In cosa possono essere fascisti i Nuotatori del 1932? E in cosa il mirabile Tram del 1924 di Virgilio Guidi? Altra cosa è l'invenzione artistica, altra la convinzione politica e culturale. L'aveva colto perfettamente, tra manifesti di intellettuali fascisti e antifascisti, equamente bilanciati da Luigi Pirandello e Benedetto Croce, un pensatore libero come Giacomo Noventa: «Il Fascismo non fu un errore contro la cultura, ma un errore della cultura italiana». Un'accusa o una constatazione? Quindi un errore anche di pittori e scultori, ma senza condizionare la loro ragione estetica, né limitandone la libertà interiore. Si può dire fascista per il soggetto, più di quanto non sia michelangiolesca la meravigliosa Madre di Domenico Ponzi, che piacque a Hitler?

Per gli artisti l'aveva inteso proprio Mussolini, lontanissimo dalla demonizzazione dell'arte degenerata, presentando il gruppo di «Novecento» proposto a Milano, alla Galleria Pesaro, da Margherita Sarfatti, nel 1923: «Non si può fare una grande nazione con un piccolo popolo. Non si può governare ignorando l'arte e gli artisti; l'arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano; comincia con la storia dell'umanità e seguirà l'umanità fino agli ultimi giorni. Ed in un paese come l'Italia sarebbe deficiente un Governo che si disinteressasse dell'arte e degli artisti. Dichiaro che è lungi da me l'idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all'arte di Stato. L'arte rientra nella sfera dell'individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale. Ci tengo a dichiarare che il Governo che ho l'onore di presiedere è un amico sincero dell'arte e degli artisti». E così fu, se pensiamo che durante e con il Fascismo maturarono le esperienze di Adolfo Wildt, Giorgio Morandi, Arturo Martini, Fausto Pirandello, Cagnaccio di San Pietro, Mario Mafai, Alberto Ziveri, Antonietta Raphael, Antonio Donghi (il mirabile Il cacciatore o Il giocoliere), Renato Guttuso, Afro, De Pisis, in cui non passa un alito di Fascismo.

L'apparente distanza fra la mia posizione e quella di Noventa non apre la strada alla interpretazione legittima, ma limitativa, di Galli della Loggia. Anche gli artisti e gli architetti che hanno lavorato per incarichi e committenze del regime non hanno subordinato la loro visione al potere, sia negli infiniti soggetti di vita e di pura esistenza sia nei grandi cicli di esaltazione dell'epica fascista: ne sono campioni Sironi e Achille Funi, come Duilio Cambellotti (riabilitato da Leonardo Sciascia per il suo ciclo, occultato fino al 1987, nella Prefettura di Ragusa) e Arturo Martini. Sironi scriveva che l'artista deve uscire dal suo egocentrismo e divenire «militante», e la pittura avere finalità sociali ed educative. Volle mostrarsi, con i suoi affreschi murali, il Giotto del fascismo. E così fu alle Università di Roma e Padova, e al Palazzo di Giustizia di Milano. Le sue potenti figure, umili e insieme grandiose, sono la rappresentazione dell'epopea sociale di un popolo. Come i murali di Diego Rivera a Città del Messico. A celebrare il «fascista» Sironi fu Pablo Picasso, eroe del comunismo mondiale. Questi partecipò alla Esposizione universale di Parigi del 1937 con Guernica. Al suo fianco era esposto il grande mosaico di Sironi L'Italia corporativa. L'opera è ora a Milano nel Palazzo del Popolo d'Italia, poi Palazzo dei giornali, in Piazza Cavour (innovativa opera di un architetto fascista come Giovanni Muzio). Quando Picasso la vide dichiarò: «Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto». Anche qui il giudizio estetico di Picasso assolve Sironi. Essere genuinamente fascisti come Sironi non vuole dire che il Fascismo decide la scelta estetica di un artista, ma che anche ai grandi temi sociali del Fascismo l'artista offre una autonoma espressione stilistica.

Mino Somenzi, sull'organo ufficiale del movimento futurista Futurismo del 12 marzo 1933 afferma: «Il Futurismo è una forma d'arte e vita; il fascismo una forma politica e sociale: cose diametralmente opposte». Paolo Buzzi potenzierà: «Estrema sinistra! C'è un solo Futurismo: quello di estrema sinistra» (Futurismo, 29 marzo 1933). L'anno seguente, il Futurismo, con testimonianze di Aeropittura, è in mostra ad Amburgo e poi a Berlino e Vienna. Il clima culturale è ostile: la mostra scatena polemiche. Hitler perseguita l'arte degenerata». Replica dall'Italia il futurista Prampolini: «Ora che i grandi maestri dell'espressionismo tedesco hanno emigrato altrove e che questa corrente è stata messa al bando, su cosa spera di fondare il nazismo le sue nuove basi estetiche ed artistiche?». Sono testimonianza di libertà dell'arte dalla politica che confermano la mia formula: «Nell'arte non c'è fascismo; nel fascismo non c'è arte».

Una semplificazione efficace, al di là delle convinzioni politiche. Se il fascismo poteva essere una «cantonata», convintamente condivisa, l'arte di quegli anni ha raggiunto, con o contro il fascismo, risultati che hanno valore universale.

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