Per anni è stato sulle pagine dei giornali, accusato e condannato per un delitto che nega di avere commesso. È il primo volto umano che appare, dentro la prima cinta del carcere di Opera. Appesantito, i capelli ormai bianchi. È piegato in giardino su un arbusto di rosa, che cerca in qualche modo di tenere in vita. «Ecco, io sono come questa roba qui. Si sta chiusi qua dentro, si invecchia, i giorni non hanno senso».
Carcere di Opera, nove e mezza di un mattino. Si prepara la festa d'addio a Silvio Di Gregorio, il direttore, che è stato promosso. Ha passato qui sette anni, a cercare di dare un senso alla vita quotidiana dei milletrecento uomini chiusi nel colosso. Ci sono quelli, come il vecchio piegato sulle rose del giardino, che questo senso non sono riusciti a trovarlo. Ma tanti ce l'hanno fatta. Nel percorso dei giorni tutti uguali, sono riusciti ad afferrare un bandolo. Tra loro, quasi incredibilmente, ci sono anche alcuni che sanno fin da ora che da qui usciranno solo in una bara: i sepolti vivi del 41 bis, gli ergastolani «ostativi», gente la cui condanna impedisce ogni ritorno alla vita civile. Nulla di ciò che imparano qui dentro potranno metterlo in pratica fuori: né un mestiere, né un modo di essere. Eppure ci provano. Dei 107 detenuti di Opera che frequentano l'università, quaranta sono rinchiusi al 41 bis.
Di Gregorio è un duro. D'altronde, racconta, «credo che in Italia nessun direttore sia stato più di me in carceri di massima sicurezza». A Opera ha raccolto l'eredità di Giacinto Siciliano, che qui era stato aggredito da un malavitoso, e minacciato di morte da Totò Riina. Ora Riina non c'è più, ma il reparto 41 bis di Opera è ancora lì, isolato dal resto, inaccessibile alle visite. Come ci si rapporta con loro? «L'importante è essere chiari. Non siamo loro amici, noi non abbiamo scelto loro, e loro non hanno scelto noi. Ma siamo qui per dare a tutti una possibilità di riscatto, altrimenti il nostro mestiere non avrebbe senso».
Dopo la prima cinta, inizia il carcere vero. Niente a che vedere con la «malabolgia» di San Vittore, con i matti, i tossici, i disperati ammucchiati in letti a tre piani. Ma niente a che vedere neanche con Bollate, le sue porte aperte, il suo andirivieni di gente. Basta inoltrarsi oltre il secondo cancello, guardarsi intorno, per capire come mai dal 1989 da qui non sia mai riuscito a evadere nessuno. Tra le opzioni che Opera offre ai suoi ospiti, non c'è quella di tagliare la corda.
E allora, se di scappare non c'è modo, che senso dare ai giorni? Dice Armando: «Dipende tutto da come la prendi. Se l'unica cosa che sai fare è stare in cella a giocare a carte, non puoi lamentarti se il senso non lo trovi». L'Armando è dentro da quindici anni, gliene mancano altrettanti, lavora alla grande panetteria interna. Facevi il prestinaio anche fuori? «Diciamo che mi piaceva un altro tipo di farina». Adesso è lì che sgobba come mai in vita sua, focacce, pizzette, torte, per il mercato interno, la spesa dei detenuti, e per le scuole di Cusano Milanino che hanno un appalto col carcere.
«Galleria delle opportunità», dice la scritta all'entrata del corridoio dei laboratori. Dei milletrecento detenuti, a scegliere di lavorare sono più di cinquecento. Si fa di tutto, dai decoder per Sky ai lavori di sartoria. Poi c'è il fiore all'occhiello, il laboratorio simbolo dove si costruiscono violini col legno dei barconi naufragati a Lampedusa. Andrea è lì dall'inizio, lui con il legno e gli attrezzi aveva già confidenza prima, «però facevo i tetti, che non è la stessa cosa che fare strumenti musicali». Trasformare le assi malconce dei barconi, trattarle, farne le cinque doghe della cassa armonica richiede una pazienza da certosino: «Qui il tempo è l'unica cosa che non manca».
Dei delitti commessi fuori si parla poco e malvolentieri, «mi chiamo Alberto, il cognome lasciamolo stare»: distinto, bella parlata lombarda e colta, un «fine pena mai» timbrato sul fascicolo, dirige il laboratorio dei decoder, parla con orgoglio imprenditoriale della produzione, «siamo arrivati tra decoder e cavi a 500mila pezzi all'anno», «ci hanno confermato le commesse, siamo al primo posto nella classifica qualità». Sui banconi, sugli attrezzi, sugli operai chini aleggiano le domande eterne sul delitto e sulla pena, sulla sanzione e la rieducazione.
«Il primo passo - dice Di Gregorio - è portarli a perdonare se stessi». Qualcuno il clic, l'interruttore, lo trova scavandosi dentro, come il panettiere Armando: «I primi anni ero incazzato, non volevo essere aiutato, mi sentivo addosso una condanna all'ergastolo. Poi, un po' alla volta, inizi a farti tante domande, a darti delle risposte, e le cose cambiano». Altri il clic lo trovano fuori, nel rapporto con gli altri: Matteo dei suoi 43 anni ne ha fatti venti in carcere, iniziando dal Beccaria, «per me tutto è cambiato quando ho incontrato Marisa Fiorani, a cui la mafia pugliese ha ucciso una figlia, e che per me oggi è come una madre adottiva. Se lei ha superato un dolore così grande, allora io posso superare i rancori che mi porto dentro da ragazzino, e che usavo per giustificare me stesso».
Non sarà mai un carcere morbido, Opera: perché qui la necessità punitiva dello Stato, il bisogno di sicurezza della collettività, si esprimono in tutta la loro potenza. Ma una seconda chance viene offerta a tutti, o quasi.
Fanno la loro parte in tanti: direttori, agenti, detenuti. L'unico a non farla è lo Stato. Quando Di Gregorio è arrivato, il cantiere per 400 nuovi posti era fermo causa burocrazia. Di Gregorio se ne va, e il cantiere è ancora lì.
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