L'Antimafia si spacca e i boss se la ridono. L'attacco del Fatto quotidiano alla presidente Fdi Chiara Colosimo e lo scheletro dello zio a lei estraneo condannato 15 anni fa danneggia l'integrità del presidio parlamentare contro le mafie e non favorisce certo la lotta ai clan, anzi Tutto pur di salvare la reputazione di due magistrati come Roberto Scarpinato e Federico Cafiero de Raho dalle loro potenziali responsabilità nell'inchiesta di Caltanissetta sul vero movente dietro la morte di Paolo Borsellino da un lato e nell'inchiesta sui dossieraggi su cui indaga la Procura di Perugia. «La Colosimo ha uno zio di primo grado condannato a 4 anni e 6 mesi e radiato dall'albo degli avvocati perché a disposizione della 'ndrangheta», scrivono i grillini dopo la lettura del quotidiano diretto da Marco Travaglio, «ecco perché l'Antimafia non indaga sui legami tra stragisti, 'ndrangheta e destra eversiva». «Capisco che andare a fondo senza dover difendere alcuno nel caso del dossieraggio spaventi altri, ma la cosa non mi tocca. Sempre più forte rimbomba la domanda: chi ha paura della verità?», si chiede invece la Colosimo. «Su mio zio da cui ho preso le distanze nel 2010, prima della condanna, tutto è già noto e ampiamente raccontato nel corso degli anni», sottolinea la meloniana.
Perché tirarlo fuori adesso? Anche la sua presunta vicinanza con l'ex Nar Luigi Ciavardini, riportata sul Fatto dalla firma di Report Alberto Nerazzini, è storia vecchia. «L'articolo, evidentemente, troppo scarno di fango è arricchito con il racconto di una mia presunta vicinanza con Ciavardini», conosciuto a Rebibbia quando la Colosimo faceva volontariato. «Con quella organizzazione eversiva non ho mai condiviso nulla, lo dice l'anagrafe», ribadisce il presidente dell'Antimafia ma anche la sua storia, le rinunce all'auto blu e al vitalizio, le battaglie sulle interdittive antimafia, l'aver dato voce ai figli di Paolo Borsellino, mettendo in discussione anni e anni di narrazione mainstream sulle stragi.
Mascariare l'avversario politico, incuranti delle ricadute su una verità giudiziaria ancora tutta da scoprire fa capire il peso della posta in palio dietro l'agguato mediatico, che prova a disinnescare il tentativo della Colosimo di tenere i due grillini fuori dai lavori della commissione che sta indagando sulle stragi del 92-93 e sui dossieraggi che per i pm umbri avrebbe orchestrato dentro la Dna l'ufficiale Gdf Pasquale Striano e il suo superiore, l'ex pm Antonio Laudati. Ma se le indagini sugli spioni sono appena all'inizio, l'indagine di Caltanissetta che sfiora Scarpinato riguarda l'attuale presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, «colpevole» assieme al suo collega Gioacchino Natoli di aver archiviato troppo frettolosamente - era il 14 agosto 1992 ma la richiesta era stata scritta il 13 luglio 1992, una settimana prima la strage di via D'Amelio - il dossier dei Ros su mafia e appalti su cui voleva indagare proprio Borsellino. Grazie a un trojan inserito dai pm di Caltanissetta nel cellulare di Natoli, indagato per favoreggiamento alla mafia e calunnia, il grillino è stato pizzicato a parlare dell'audizione in Antimafia. «Tu mi alzi la palla e io la schiaccio», pare abbia detto Natoli a Scarpinato secondo la Verità. «Le mie intercettazioni vanno distrutte», ha tuonato Scarpinato, che per anni ha invece difeso il diritto di pubblicare quelle dei potenti perché «scomode». Secondo i due Borsellino sarebbe stato al corrente dell'archiviazione perché non vi erano «elementi sufficienti per andare avanti».
Ma su chi? Su alcuni imprenditori in odore di mafia, Franco Bonura e i fratelli Salvatore e Antonino Buscemi, che flirtavano con alcuni manager del Nord come Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini, ai vertici del Gruppo Ferruzzi. L'ipotesi è che i capitali del narcotraffico di Cosa Nostra venissero ripuliti altrove, mentre sta per nascere Mani Pulite. Ma questa è un'altra storia.
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