Pubblichiamo qui un estratto del saggio di Marco Respinti «Come si USA. Guida (e curiosità) per l'elezione del presidente americano» (D'Ettoris, pagg. 102, euro 12,90).
Si dice, e troppo si ripete, che negli Usa un candidato può diventare presidente prendendo meno voti di chi perde. Ovviamente non è vero. In democrazia vince sempre e solo chi ottiene più voti, ma il punto è che gli Usa sono una democrazia diversa.
Il giorno delle elezioni i cittadini di ogni Stato non votano infatti per il presidente quest'anno Donald Trump o Kamala Harris bensì per un gruppo di delegati che solo poi eleggerà il presidente. Il voto dei cittadini è chiamato «voto popolare» e quello dei delegati «voto elettorale». Ebbene, il voto elettorale espresso dai delegati scelti dal voto popolare è appannaggio degli Stati dell'Unione perché, come stabilisce la Costituzione, è l'elezione della Casa Bianca a essere appannaggio degli Stati. In un Paese federale la democrazia funziona così.
I delegati eletti nei 50 Stati costituiscono il Collegio elettorale. Istituito dalla Costituzione nell'Articolo II, è la bestia nera dei progressisti e ha un solo scopo: arginare le derive della democrazia in quella tirannia delle masse che è l'arma preferita dei regimi liberticidi e che i Padri costituenti americani temevano come il fuoco. Interessante è quanto scrive William C. Kimberling, già vicedirettore dell'Office of Election Administration della Federal Election Commission di Washington, in una guida autorevole e sapida del 1992, intitolata The Electoral College: l'istituto del Collegio elettorale risale ai comizi centuriati di Roma antica e funziona esattamente come il conclave che elegge i Pontefici.
La logica con cui viene designato il Collegio elettorale ne comporta il numero. Premessa. Ognuno dei 50 Stati dell'Unione esprime un certo numero di deputati e di senatori nel Congresso federale di Washington. I deputati sono eletti in numero proporzionale al numero degli abitanti, ma non di tutto il Paese: di ciascuno Stato, poiché la Camera rappresenta i cittadini non in astratto e come massa, bensì come abitanti delle «piccole patrie» statali. I senatori sono invece 2 fissi per ciascuno Stato, giacché nel Senato gli Stati sono rappresentati pariteticamente. Ora, la somma dei numeri dei cittadini di ciascuno Stato singolarmente presi e il numero dei cittadini degli Usa considerati indistintamente assieme non differiscono sul piano aritmetico, ma sono diversi sul piano concettuale. Al Congresso sono infatti rappresentati, nelle due specie di ogni singolo Stato in quanto istituzione e dei cittadini di quello stesso Stato, gli Stati abitati dell'Unione: con le loro composizioni etniche, culturali, valoriali, religiose, e così via, dunque con le loro identità e con le loro storie. Gli Usa sono cioè un Paese di storie.
Questa premessa è importante, perché, per le elezioni della Casa Bianca, ogni Stato esprime, dunque mette in palio, un numero di delegati nel Collegio elettorale pari alla sua rappresentanza nel Congresso federale: 2 più tanti deputati quanti ne elegge in relazione al numero dei propri abitanti. Il criterio rispecchia insomma fedelmente il modo in cui i componenti dell'Unione, cioè i contraenti il patto federale, sono rappresentati nel Congresso di Washington.
Perché, allora, ripetendo una falsità, si dice che negli Usa si può vincere prendendo meno voti? Anzitutto perché si continua a credere che siano i cittadini a eleggere direttamente la Casa Bianca, mentre invece questo compito spetta agli Stati. Il secondo motivo dipende dal modo in cui sono disegnate le circoscrizioni elettorali. Un tempo il numero dei deputati federali, eletti in ciascuno Stato proporzionalmente al numero degli abitanti, cresceva costantemente. Poi una legge del 1929 ne ha fissato il numero: 435. Quale che sia, quindi, l'entità dei cittadini americani risultante dai censimenti, tale entità viene suddivisa, elettoralmente parlando, per 435. Capita allora che, a seconda delle circoscrizioni, qualche deputato sia eletto da un numero minore di voti rispetto a un altro. E siccome i delegati di uno Stato nel Collegio elettorale che vota il presidente vengono eletti da quelle medesime circoscrizioni, qualche delegato può essere eletto da un numero minore di voti rispetto a un altro. Ma alla fine il presidente sarà sempre chi avrà ottenuto la maggioranza dei voti elettorali espressi dagli Stati.
È quanto successo nel 2000, quando George W. Bush divenne presidente con soli cinque voti elettorali in più di Al Gore (271 contro 266) e uno solo sopra il quorum di 270 necessario per vincere nel Collegio elettorale, ma totalizzando 50.456.002 voti popolari (il 47,86%) contro il 50.999.897 (il 48,38%) dell'avversario. Ed è accaduto anche nel 2016, quando Trump arrivò alla Casa Bianca con solo 62.984.828 voti popolari (46,09%) contro i 65.853.514 (48,18%) di Hillary Clinton, ma con 304 voti elettorali contro 277. Lo scandalo a cui molti gridano è inesistente. In entrambi i casi, infatti, i vincitori hanno concluso con maggioranze definite o addirittura solide nel Collegio Elettorale e quelle hanno consentito loro di essere poi eletti senza ombre presidenti di tutti.
Gli Usa sono insomma il Paese delle meraviglie. Lo mostrano bene due curiosità. Da quest'anno alla fine dei tempi, si può segnare sul calendario la data delle elezioni della Casa Bianca (e del Congresso). La Costituzione fissa infatti l'Election Day al martedì seguente il primo lunedì di novembre degli anni divisibili per 4. Niente voto di domenica, Giorno del Signore, perché ciò avrebbe violato il primo diritto dei cittadini, cioè la libertà religiosa sancita dal Primo Emendamento alla Costituzione.
Il mercoledì era altrettanto da escludere perché giorno, consuetamente, di mercato. Martedì, va bene: ma perché il martedì dopo il primo lunedì? Per evitare che la data cadesse il 1° novembre, Ognissanti.Gli Usa sono rimasti così: una democrazia diversa.
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