Il "61" e quel vecchio bar-latteria del Lorenteggio

Sulla linea che da est a ovest attraversa Milano. Da largo Murani alle strade ricche e solenni, fino al Giambellino dove si può trovare ancora un antico locale pieno di anziani intenti a giocare a briscola, ma gestito da due cinesi

Il "61" e quel vecchio bar-latteria del Lorenteggio

Prendo la 61 sull’angolo tra viale Romagna e piazzale Susa. Sulle prime pensavo di usarla solo per raggiungere, in Cairoli, un altro mezzo che mi avrebbe portato a Quarto Oggiaro. Poi ho pensato che dopo Vialba e Ponte Lambro era forse il caso di consultare altre facce della città e mi sono detto: «Raccontare una città parlando solo delle sue emergenze è come pretendere di ritrarre qualcuno facendogli solo il naso».
Così sono rimasto sulla 61 obbedendo a un sogno lontano: quello di vedere, finalmente, Largo Brasilia. Covavo in me questo desiderio fin da quando, nel 1975, mi trasferii a Milano. E tutto per via di quel nome.
La 61 attraversa Milano da est a ovest. Durante il suo lunghissimo percorso il paesaggio urbano cambia, eppure si ha la sensazione che questa ampia parte di città racconti tutto sommato una storia sola, sia pure molto complicata. La 61 corre su un filo che, forse, sa legare tra loro le storie che incontra fra Largo Murani e corso Plebisciti, fra piazza San Babila e l’anaffettivo, intrattabile blocco del Piccolo Teatro di Zanuso, fra lo splendido edificio della Triennale, capolavoro di Muzio, fra la tormentata via Pagano e la conservatrice via Washington, e poi giù lungo l’interminabile via Lorenteggio, fino al capolinea.
Se per lungo tratto la 61 percorre quartieri della Milano ricca, ricalcando la direttrice Monforte e lambendo le belle vie Poerio, Mozart, Vivaio, e poi, dopo San Babila, tornando sui propri passi lungo la Circonvallazione dei Navigli fino a quella parentesi francese che sta tra le sponde di Foro Bonaparte e di Via Canova, dalla svolta di via Pagano in poi vede questa ricchezza complicarsi, caricarsi improvvisamente di ricordi.
Le vecchie, sfarzose e un po’ malinconiche (memori di brume lontane) abitazioni milanesi Primo Novecento lasciano il posto, mentre ci si avvicina a Largo V Alpini, a palazzi belli ma molto più recenti. Il che fa immaginare che la guerra abbia lasciato qui - dove è presente una grande caserma - ferite profonde, fino a conferire al paesaggio urbano, pur bello, un’idea di non concluso, di definitiva provvisorietà. (Anche in Corso Italia, nelle vicinanze di un altro presidio militare, accadde lo stesso, e lo testimoniano alcune vie tra le più antiche della città - via del Don, via Disciplini - dove di antico non resta più niente).
La conferma di questa mia sensazione si ha allo sbucare del bus in quella specie di grande triangolo tra le Vie Burchiello e Giotto, cui il lusso delle abitazioni non toglie una certa aria da parcheggio abusivo di periferia. C'è, insomma, molta terra smossa, qui. Molti i morti che non sapremmo dove andare a piangere.
Passata piazza Piemonte, la 61 gira in via Washington dall’aria solenne e distinta, e anche un po’ vecchiotta, con bei negozi, banche, pasticcerie. Gli edifici però sono molto diversi tra loro. Nel primo tratto prevalgono casette basse, indubbiamente graziose, che qua e là incastonano vecchi alberghetti dal sapore antico, che altri quartieri hanno provveduto a eliminare. Vecchia borghesia puttaniera.
Basta, verso piazza Napoli, una curva, e poi meno di cento metri, ed ecco che tutto cambia, e l'impettita incollanata via Washington lascia il posto alle case popolari di viale Misurata e a quelle decorose della prima via Lorenteggio; ma non sono due diverse Milano: è soltanto la sciura che, sbrigate le sue faccende, affida la sporta della spesa, in quel di Piazza Napoli, alla moglie del portinaio, allungando qualche carti de mila.
Via Lorenteggio è tutt’altro che una strada banale, piena com’è di milanesità. Man mano che si allontana dal centro, il fronte compatto dei suoi palazzi pieni di negozi lascia il posto al tipico caseggiato anni '60, talvolta sistemato di sbieco rispetto alla via. Gli esercizi commerciali si diradano, ma quelli che ci sono hanno molto da raccontare.
Amo le periferie perché è soprattutto lì che la città di affolla di racconti. Per esempio tutti questi carrelli della spesa (Foppa Pedretti & Co.) che sembrano moltiplicarsi, trascinati da signore anziane e sole, man mano che si procede verso il capolinea. Se la velocità media della città è un fattore di sviluppo fondamentale, si potrebbe calcolare quanti milioni annui e quante occasioni di sviluppo si perdono a causa dei prolungamenti di sosta cui queste signore obbligano i conducenti.
Io però alle incidenze sui costi preferisco queste splendide vecchiette. Una di loro, a una fermata dal capolinea, chiede all'autista di non ripartire perché deve timbrare il biglietto. Solo che lo infila sempre dalla parte sbagliata. L’autista le insegna come si fa.
«Guardi però» aggiunge «che il capolinea è a una fermata».
«No no» fa la signora «io scendo qui».
«E cosa fa? Timbra prima di scendere?»
«Be’, non ero ancora riuscita a timbrare...».
«Signora, risparmi un euro, se è già arrivata».
Meravigliosa signora, meraviglioso autista, meravigliosa Milano. In una scenetta così ci sono tutte le ragioni (quelle ragioni a volte così ben nascoste!) d’amore per questa città. Potessi definire Milano con una frase, userei la celebre battuta dell’Innominato: Che c’è d'allegro in questo maledetto paese?
Largo Brasilia eccolo, finalmente: la meta del mio viaggio. Quadrato, si apre un po’ gratuitamente su un lato di via Primaticcio, e sembra fatto apposta per ospitare qualche capolinea dell’Atm.
Sull’altro lato di via Primaticcio ecco le vie floreali - Rose, Gigli, Giacinti, Camelie, Oleandri - che ospitano un’architettura minuta fatta di villette senza pretese, memore di spazi un tempo più aperti, e di prefabbricati nei quali si sviluppa una vita simpaticamente paesana, con orti e barbecue.
Questa parentesi bucolica ha però breve spazio perché laggiù, in fondo al Lorenteggio, si profilano le gru e con le gru le sagome di nuovi ecomostri o ecocapolavori, che sono i nuovi termometri del nostro sofferto ma inevitabile Sviluppo.
In questa parte di città, tra il Lorenteggio e il Giambellino, nonostante la bizzarria degli architetti che volle ricoprire di un azzurrognolo obitoriale, oncologico tutto un enorme complesso residenziale, commuovono gli esercizi commerciali. Ecco qui ancora un vecchio bar-latteria, che ci riporta alle canzoni struggenti di Jannacci (Dona che te durmivet), ecco un vecchio spazioso bar (Caffè Ottolina, scritta verde al neon) pieno di anziani intenti, tra bestemmie e romanze d’opera, in alcune difficili partite a briscola chiamata.
Ma in questo quadro idilliaco spicca il volto allegro dei proprietari: due cinesi che preparano un eccellente caffè.
Al posto del piattino per le mance, una statua sorridente del Buddha. I cinesi snobbano il nuovo: loro amano la vecchia Milano.

Quanto a me, ricorderò a lungo questa immagine finale, dove le antiche storie cominciano a legarsi, in modo imprevedibile, con quelle che non sono ancora state scritte perché non esistono. Ma già si capisce che esisteranno: vogliamo scommettere che la vera novità, più che dai grattacieli, arriverà da qui?

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