Addio bianchino, ormai si bevono illusioni

di Il caffè italiano è buono listletto. E loro hanno imparato alla svelta a farlo così. Dalla crema d’Arabia di don Raffaè cantata da Faber al colto di Marco è cambiato poco, ma è cambiato anche tutto. Marco all’anagrafe (di Pechino, Shanghai o che altro?) sarebbe Kim. Dice lui. E perché non credergli? Sta di fatto che listletta è diventata, anche al netto dei cinesi, nuova classe operaia colonizzatrice, la vita dei nostri bar. Nostri di chi, poi? Degli avventori occasionali che si trovano a passare di lì per un appuntamento in zona o perché hanno sbagliato fermata del tram o degli habitué? Non fa differenza. Perché il bar di oggi non è più la seconda casa degli scalaquarantisti, dei fancazzisti, degli attendisti, dei solipsisti, dei cornuti, dei papponi. È diventato ormai un luogo di lavoro. Il listletto e il camparino, l’amaro e la sambuca, le carte, il Milan, l’Inter, la Juve e il governo ladro... Tutto viene ridotto a pretesto o, peggio, a semplice accompagnamento della Grande Campagna della Fortuna, della Lotteria Permanente. Se entri dal suddetto Marco-Kim o dall’Elisa (che è Elisa anche all’anagrafe, magari semplicemente di Pavia) e conti dieci avventori, stai pur certo che non più di due sono lì per bere o tirar tardi, per la libera uscita concessa dalla moglie o per comprare le sigarette o la marca da bollo. Gli altri otto stanno combattendo la loro battaglia contro il destino cinico e baro del gratta-e-spera, del milionario, del miliardario, del billionario, del vitalizio senza colpo ferire che promette sole 24 ore su 24, ragazze seminude e disponibili in spiaggia e zero problemi. Estraggono foglietti, compulsano telefonini, studiano i «ritardi» dei numeri. Inconsapevoli dei loro, di ritardi, accumulati nell’interminabile corsa all’oro che li ha schiavizzati molto più dell’alcol e del fumo. «Uhei, Stefano, cosa prendi?». Ma Stefano, che pure non disdegnerebbe un bianco spruzzato, ha la testa fra le nuvole, guarda in alto il video azzurrino su cui si alternano le cifre esistenziali. Esistenziali nel senso che se ne imbrocchi un paio, poi esci dal bar e vai direttamente al super a fare la spesa per tutta la settimana. Così la pensione, lo stipendio da fame, il sussidio di disoccupazione si prosciugano più rapidamente della bottiglia del rabarbaro Zucca. E il melting-pot si rivela, letteralmente, per ciò che è: un «calderone etnico» con il vecchietto eritreo, il ragazzo di vita marocchino, la baldracca romena, il nullafacente italiano uniti in un empito di illusione. Quando il nonno Enrico distillava pomeriggi a base di ramino e quartini, c’era soltanto la schedina, nel fine settimana, da fare e disfare, due colonne e via, senza nemmeno uno straccio di sistemino per prenderlo puntualmente in quel posticino. Oggi che il nonno Enrico è morto da un bel po’ i suoi omologhi del Terzo Millennio stanno in campana ignorando il fatto che la campana dell’Illusione suona sempre a morto. Il bar è la Spoon River dei sogni. Il Marco e l’Elisa lo sanno. Ammiccano a chi entra, non chiedono, aspettano che l’ansia di successo secchi le gole, stuzzichi l’appetito per un tramezzino o una brioche. Strappano tagliandi che sono biglietti di sola andata per destinazione ignota destinati a ignoti.

Lo Stefano non stacca invece lo sguardo sbilenco dal video, Ahmed consuma una moneta da venti centesimi sul suo mazzo truccato, Eva non risponde nemmeno al cellulare perché sta cercando la combinazione giusta per aprirsi una nuova via che non sia il viale dove batte abitualmente. Addio, vecchio bar del biliardo e delle nazionali senza filtro. Adesso il filtro ce l’hanno tutti, quello che manca è il gusto.

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