"Da agente straniero mi sento un Bin Laden"

Lo scrittore russo Boris Akunin autore di "L'avvocato del diavolo" ironizza sulla sua messa all'indice

"Da agente straniero mi sento un Bin Laden"

Nella gustosa introduzione al nuovo romanzo di Boris Akunin, L'avvocato del diavolo (Mondadori, pagg. 117, euro 17,50, traduzione di Erin Beretta, Francesco De Nigris e Mariangela Ferosi), Paolo Nori scrive, a proposito dell'autore russo: «È uno studioso di culture orientali, giapponese in particolare, diventato, dalla fine degli anni Novanta, forse il più noto scrittore russo vivente, autore di una fortunatissima serie di gialli storici e di una notissima Storia della Russia in dieci volumi». I superlativi sono d'obbligo, in quanto non solo il dissidente Akunin è stato paragonato negli anni a Gogol', Tolstoj e Arthur Conan Doyle, ma i suoi romanzi con protagonista il detective Erast Fandorin hanno venduto più di quaranta milioni di copie in tutto il mondo. Nato in Georgia 69 anni fa, cresciuto a Mosca e dal 2014 residente in Europa, Akunin (che in realtà si chiama Grigorij Shalvovich Chkhartishvili: lo pseudonimo pare dipenda da una parola giapponese che significa «scellerato», ma se si abbrevia il nome di battesimo si produce l'anarchico «B. Akunin») è oggi ospite a Libri Come a Roma (ore 15, Auditorium Parco della Musica), introdotto proprio da Nori, per presentare quella che lui stesso definisce una «novella» che si apre con la morte di Putin.

Satira e dileggio - non solo verso il regime - sono chiari così fin dall'incipit: per la scomparsa di Putin, Akunin immagina quattro conseguenze per la storia della Russia e se la prima è che «Torna McDonald's. Sul menu rimarranno le rapa-fries, la borcevik-pie e la ivancaj-cola tanto amati dai russi», vi lasciamo immaginare quanto siano cruciali le altre tre. Alla caduta del Leader, il neoeletto governo progetta una fantomatica Ristrutturazione Totale in cui rimane invischiato anche uno scrittore dissidente perseguitato dal vecchio esecutivo, Boris Turgencikov, che, tornato in Russia, si trova a fare da difensore al vicesegretario del Leader, diventato capro espiatorio e «diavolo» su cui scaricare ogni colpa del vecchio regime.

Come le è venuto in mente di far morire Putin?

«In passato ho scritto una storia della Russia in dieci volumi. Ho trascorso tanto tempo a fare ricerche e studiare il passato. Quindi ho pensato di potermi permettere di scrivere un romanzo molto breve, la punta di un enorme iceberg sommerso, su quello che è il futuro della Russia. Io sono cresciuto in uno Stato totalitario che si chiamava Unione Sovietica, sotto una dittatura. Poi ho visto caduta e scomparsa di questa dittatura: sembrava che la Russia fosse diventato il Paese più libero del mondo. Ma mi sono trovato a vivere una specie di favola sinistra: tagli la testa del drago con una spada e al posto di questa testa ne spuntano tante altre. Un'allegoria dello stato di cose in Russia. Questo romanzo esprime la mia paura personale del drago che continua a rinascere: penso a quello che verrà quando il regime di Putin cadrà. E cadrà sicuramente, perché inefficace e molto corrotto. La mia paura è che rinascerà sotto altre spoglie, perché i veri motivi per cui ora c'è il sistema putiniano rimarranno, anche dopo la scomparsa di Putin».

Siamo nel thriller o nel romanzo storico?

«Essendo lo scrittore che sono, ho scritto questa storia in maniera divertente e spassosa, anche se l'emozione principale è la paura: quindi se devo definirne il tono, si tratta di una risata nervosa. Per il genere direi un avvertimento».

Quindi la «Ristrutturazione Totale» di cui si parla nel romanzo non accadrà mai?

«La risposta è ovvia. Un Paese così esteso per vastità e differenze può essere governato solo in due maniere: attraverso la paura e la violenza, oppure lasciando vivere ogni regione come vuole, come in una confederazione. Questa seconda versione non è mai stata sperimentata nella storia russa. Parlavo molto spesso di questo con Aleksei Navalny, che alla fine mise come punto principale del suo programma di governo, se fosse stato eletto, la federalizzazione della Russia, che chiamava la bella Russia del futuro. Ora Navalny è morto. Non ci sarà una bella Russia del futuro».

E il Boris del libro?

«Sono io, naturalmente. Una parodia di me stesso».

Quando ha saputo di essere nella lista nera di Putin, due anni fa, che cosa ha provato?

«Mi sono sentito lusingato. E mia moglie ha cominciato a guardarmi con occhi diversi, un nuovo rispetto».

Eppure, nell'introduzione al volume, Nori dice che gli scrittori russi non contano più come una volta.

«L'importanza degli scrittori è diminuita un po' ovunque nel mondo. In Russia è ancora alta rispetto ad altri Paesi, ma in ogni caso quando noi scrittori abbiamo cominciato a pensare che non fossimo più socialmente e politicamente importanti, Putin ci ha dimostrato il contrario. Molti dei più famosi scrittori contemporanei russi oggi sono considerati agenti stranieri dal governo e quindi nemici del popolo. Io ho cominciato come scrittore di letteratura di evasione, scrivevo libri gialli, nemmeno io mi prendevo molto seriamente. Ma adesso devo: sono un agente straniero, ci sono tre capi di imputazione penali nei miei confronti, sono stato inserito nella lista dei terroristi e degli estremisti e sono a tutti gli effetti un ricercato. Mi sento molto pericoloso, sono una specie di Bin Laden».

Di che cosa sta scrivendo ora, storia o finzione?

«Sono un vero grafomane: sto sempre scrivendo almeno tre libri alla volta.

Vivo in tre Paesi, Regno Unito, Francia e Spagna, e ad ognuno di questi ho riservato una scrittura diversa, perché ognuno mi ispira un certo tipo di letteratura. Mi muovo in questo triangolo cambiando genere, a seconda della scrivania a cui sono seduto».

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