Allevi torna a suonare per la «sua» Milano

È uno che ha sempre avuto le idee chiare Giovanni Allevi. Prendete le accuse formulate in un recente passato, attraverso le pagine della cultura della stampa quotidiana nazionale, da un affollato manipolo di esponenti del mondo accademico volte a sminuirne il suo talento compositivo. «Le sue composizioni sono risibili. La sua opera è un furbo collage di nessun valore. In passato non sarebbe entrato in conservatorio», sparò impietoso il violinista Uto Ughi, tra i leader dei detrattori, censurando tra l'altro la scarsa umiltà del panista-compositore di Ascoli Piceno (dalla sua, 10 anni di pianoforte a Perugia e altrettanti di composizione al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, oltre a una laurea in filosofia con tesi sul concetto di vuoto nella fisica contemporanea), «colpevole» di essersi auto-proclamato il «profeta della nuova musica». A ben guardare, lui, 41 anni, fresco neopapà, questo tipo di critiche le aveva messe in preventivo sin dagli esordi. All'inizio degli anni Zero, quando muoveva i suoi primi passi da solista stampando cd per la Soleluna di Jovanotti e accompagnando proprio la banda di Lorenzo Cherubini in tour, non nascondeva le proprie ambizioni. «Che cosa voglio fare? Iniziare o, almeno, provare a iniziare una nuova strada con la musica. Poter insomma dire ed esprimere qualcosa di innovativo. Perché l'artista contemporaneo deve essere al tempo stesso filosofo e inventore con un pizzico di follia, ma soprattutto deve uscire dalla Torre d'Avorio e occuparsi di tutto. Senza paura», raccontava controllando ogni singola parola davanti a un microfono in un bar sottocasa, dalle parti della Darsena. Già allora si sentiva in dovere «di sfidare la proverbiale ritrosia degli accademici, contrari per principio all'idea che un pianista possa suonare la propria musica, per restituire attraverso le proprie composizioni le diversità di una società multiforme così come dare voce alla solitudine di chi crea». «Il mio linguaggio va avanti con regole proprie. È lontano dall'immediatezza del pop e al concetto di improvvisazione sostituisce il concetto di sviluppo musicale», dissertava con eloquio lucido e forbito Allevi, che non nascondeva il suo chiodo fisso: giocare in equilibrio tra jazz contemporaneo di scuola made in Usa e tradizione classica europea, senza disdegnare la «cantabilità italiana». «L'intensità e la sperimentazione continua, sono i miei obiettivi primari e per farlo bisogna mettere da parte anche il proprio, inevitabile essere virtuoso», andava oltre il futuro «enfant prodige» di quella che lui stesso ha etichettato come «musica classica contemporanea». Che dunque, detto con il senno di poi, molto aveva previsto, anche se non tutto. Di sicuro non la cosa più importante: il successo con la «s» maiuscola. Un consenso ampio e trasversale, in barba alla critica e all'establishment, che il marchigiano naturalizzato milanese, da autentico stakanovista del pianoforte, non smette mai di coltivare. Sarà pure un sognatore e un visionario, ma è anche un musicista che non si ferma mai.

Così dopo la fortunata e discussa esperienza come direttore d'orchestra, culminata con il cd e dvd del concerto all'Arena di Verona di un anno fa, eccolo riproporsi in versione solista stasera agli Arcimboldi (ore 21, ingresso 40/25 euro). Un ritorno all'antico - «ad una dimensione più intima e personale» promette -, prima di chiudersi in studio per incidere l'atteso seguito dell'album «Evolution».

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