Cinque squadre per una olimpiade (pallavolo, pallanuoto, calcio maschili, pallavolo e pallanuoto femminili), ma stavolta il pallino lhanno in mano le donne. Che dice Anastasi? «Le ragazze della pallavolo sono brave, diamogliene atto». Ma anche le fanciulle del setterosa sono niente male. I bookmakers le vedono con loro in bocca. Cosa pensare? Speriamo nella via in rosa. E per laltra rimbocchiamoci le maniche: il pane di Anastasi, che di nome fa Andrea, e non Pietro come vorrebbero ricordare i nostalgici made in Juventus, ha 48 anni, mantovano di Poggio Rusco, un bel passato da giocatore, un miglior curriculum da allenatore ed è il ct della pallavolo maschile, squadra carica di gloria negli anni e di maledizioni alle Olimpiadi. Nelle ultime quattro edizioni dei Giochi 3 medaglie, mai quella doro, due finali perse, compresa lultima ad Atene. Il mondo della pallavolo non dimentica numeri e occasioni perdute. Non ce lha fatta neppure ai tempi mitici del guru Velasco.
Oggi cè Anastasi che forse non è un guru, ma ha il fisico del ruolo, la crapa tosta e il pedigree nobile. Stava in panchina quando lItalia conquistò il bronzo a Sydney e per tutti furono musi lunghi. «Era una medaglia annunciata», ricorda. «Eravamo la squadra più forte, quello lobbiettivo minimo». Ha vinto gli europei con lItalia eppoi con la Spagna. Un uomo a garanzia di successo.
Anastasi, dove andrà lItalia?
«Innanzitutto a lottare. Contro tutto e tutti. Lobiettivo è vincere ma faccio fatica ad immaginare come saremo e dove arriveremo. Abbiamo avuto esiti contraddittori per arrivare a Pechino, qualificazioni comprese. Però so che avremo spirito e identità e adesso sono orgoglioso di esser arrivato a questi Giochi».
Però stavolta sono le donne ad essere favorite per un medaglione doro....
«È la verità. Hanno fatto grandi cose, brave a dimostrare il loro valore. Ma la pallavolo femminile è unaltra cosa. Con i miei assistenti abbiamo fatto un conto: tra i maschi ci sono almeno sette squadre che possono vincere».
I nomi?
«Naturalmente il Brasile, gli Usa, ultimi vincitori della World League, Serbia, Russia, Polonia, Bulgaria e Italia almeno per simpatia. Un equilibrio cui non eravamo abituati. La Spagna alleuropeo e gli Usa nella World League hanno dimostrato che si può vincere senza essere eccezionali».
Lei ha portato la Spagna al titolo. La Spagna sta vincendo tutto nello sport...
«È una realtà allavanguardia, la pallavolo non è di altissimo livello, non ha spazi su giornali e tv, eppure a Barcellona cè un centro sportivo fantastico. Tutti gli sport hanno fatto un salto di qualità. Fermo restando che basket e calcio sono sempre stati forti».
Il segreto?
«Voglia di far bene, di seguire il paese nella crescita economica, sociale, culturale. La Spagna sta dando il meglio di se stessa dopo anni difficili. Tutti spingono e quando si spinge insieme cè più entusiasmo. Quellesperienza mi è servita tanto: come allenatore sono cambiato».
Tanto diverso da quello che condusse lItalia al bronzo di Sydney?
«Certamente stavolta mi godrò di più lOlimpiade. Otto anni fa ero troppo preso dai risultati della squadra, avevamo da difendere un blasone. Pensavo solo alloro, non riuscii ad apprezzare il bronzo. La pressione mi ha tolto la capacità di godermi laspetto emozionale. I giochi vanno vissuti così: con emozione, serenità, lucidità. Se rivincessi oggi quella medaglia, sarei luomo più felice del mondo».
Detto questo, ci dica a quale stella affidarci.
«La stella? Spero siano la squadra e il suo spirito. Sarebbe un errore aspettarsi qualcosa da un uomo solo. Lo hanno dimostrato la Spagna agli europei e gli Stati Uniti».
Voi tecnici parlate sempre di squadra. Non esagerate?
«Capisco. È chiaro che ci vogliono grandi talenti. Ma esiste la necessità che anche loro suonino in gruppo. Sennò non si va da nessuna parte».
A proposito di squadre azzurre, i maschi dove vinceranno una medaglia?
«Credo nel calcio: squadra rodata, giovani motivati».
Si va in Cina con tutte le controindicazioni politiche e sociali del caso. Il Tibet pesa, ma non solo...
«È un momento disarmante, la Cina va attaccata per la sua dittatura, ma il problema non deve riguardare lo sport. Non dimentico che 1200 persone sono state uccise con la pena di morte, ma è volgare addossare una risposta solo allo sport. Il problema del Tibet è vecchio di 50 anni, perchè se ne parla solo ora?».
Ma la domanda è una: fare o non fare? Dire o non dire? Lanciare un segnale o no?
«Sarebbe meglio aiutare i cinesi a capire.
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