Anche il design made in Pechino strizza l’occhio alla globalizzazione

da Londra
Non il Made in China commerciale, ma il design creativo ed esclusivo è il vettore più efficace della nuova Cina per proiettare al mondo un’immagine sempre più globalizzata, spiega Zhang Hongxing, curatore della grande rassegna «China Design Today» in corso al Victoria and Albert Museum di Londra (fino al 13 luglio) che dalla moda all’architettura alla grafica alla fotografia e al cinema presenta un ampio spaccato della cultura cinese. Il momento non è dei più felici: con la crisi del Tibet che tiene banco, l’allestimento di una sontuosa vetrina per puntare a un maggiore coinvolgimento dell’Occidente con la Cina è stato accolto con indifferenza se non con aperte critiche politiche. Ma Hongxing non ritiene che l’isolamento sia un buona tattica neanche con un regime repressivo, perché - osserva - «non vanno tuttavia dimenticate le riforme economiche e sociali iniziate negli anni ’80 con il governo Deng e i progressi che la Cina ha fatto negli ultimi vent’anni».
Suddivisa in tre settori e incentrata su tre città in rapida espansione - Shenzen, Shanghai e Bejing - la rassegna illustra l’esplosione di creatività in una nuova generazione di designer e architetti. Shenzen la città di frontiera vicino a Hong Kong con il design più creativo; Shanghai la città dei sogni della nuova borghesia cinese; Bejing la città del futuro con l’accento sull’architettura in una giustapposizione delle influenze occidentali (lo stadio per i Giochi olimpici) con gli elementi tradizionali nei progetti di edilizia urbana. Tuttavia non si tratta proprio di un’esplosione, sottolinea ancora Hongxing: «È difficile per l’Occidente afferrare le complessità della situazione cinese, il cambiamento è stato graduale e i primi segnali risalgono al 1972, prima della morte di Mao, quando sia lo Stato sia la società si sono accorti del danno e dell’inutilità della Rivoluzione culturale e si è avviato un processo di occidentalizzazione».
Oggi il boom scaturisce da un bisogno interno di espressione individuale dopo la stretta del collettivismo, senza che quest’ondata di creatività porti necessariamente al ritorno alle tradizioni artistiche della Cina antica, ma abbracci piuttosto la nuova cultura globale. Nella mostra si notano le forti influenze occidentali sia sulle nuove tendenze del graphic design sia sulla moda e sull’architettura.
In questo slancio verso una cultura globale non c’è il pericolo che il design cinese dimentichi le radici, non mantenga insomma una sua caratteristica come per esempio il design giapponese? «Due Paesi e due culture diverse, diversa storia e diversa geografia - spiega lo studioso -. La Cina non è mai stata nella sua lunga storia una cultura pura e coerente. È una cultura composita, la cultura di un impero. Anche all’apice delle epoche auree delle dinastie Han e Tang era impossibile stabilire un’unità della cultura. Il Giappone è più consapevole della propria identità, non la Cina». Di qui dunque una maggiore permeabilità, a scapito dell’antica civiltà d’oriente.
Possiamo dire che il design cinese sia definito dal capitalismo, chiediamo? «No, il capitalismo è un buon fertilizzante, ma non è la forza di propulsione del nuovo design. Offre spazio e possibilità alla creatività», ribadisce Hongxing il quale sottolinea come oggi sia importante cambiare la nostra percezione occidentale della produttività in Cina. «Molte opere creative non sono disponibili sul mercato di massa, neanche per l’esportazione. Sono opere d’arte. Non c’è mercato e non ci sono infrastrutture che sostengano questa creatività. Sul mercato internazionale questa creatività è sconosciuta, ma per il futuro della Cina differenziare commercializzazione e creatività è fondamentale».

Perché se da una parte c’è la sfida globale con l’Occidente, dall’altra «c’è la grande sfida della Cina d’oggi, come riallacciarsi al suo complesso retaggio culturale, come ritrovare un’identità difficile» che viene sempre cercata con uno sguardo alla tradizione, come vediamo in un bel dipinto in bianco e nero del 2006 di Chen Qi - dal titolo Shui (Acqua) - che non teme di citare quella corrente dissidente, raffinatamente simbolista dei secoli passati per sottolineare l’astratta qualità dell’acqua, simbolo in Cina di semplicità, storia, virtù e memoria.

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